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martedì 15 luglio 2025

Costumi di paese di Maria Coltellaro (1921- 2008) - La scuola di Annetta- 5 (prima parte)

 Avevo 16 anni e mi ero appena diplomata quando, in seguito a domanda di supplenza in Provveditorato, mi fu assegnata verso i primi di novembre del 1937 la scuola rurale di Annetta, frazione di Conflenti a circa un'ora  di cammino a piedi  dal paese.  Dico " a piedi" perché allora le distanze si coprivano con questo solo mezzo e cioè " pedibus calcantibus et saepe pedibus nudis ".

Il primo giorno mi avviai con mia madre  e mia sorella che doveva restare con me a farmi compagnia e a seguire le lezioni a scuola (aveva solo otto anni).

La mamma portava le provviste per la settimana, parlava con le contadine del posto raccomandandomi  alle loro attenzioni. Poi se ne scendeva in paese col cuore gonfio e inorgoglita di avere una figlia maestra, la prima, per di più giovanissima, tra i signori maestri, amati e rispettati: donna Giorgetta, donna Nella, Umberto Caruso, Giovanni Butera, noto soprattutto per i "pizzuluni" che lasciavano i lividi per diversi giorni.

La scuola era in uno stanzone enorme dove, abitualmente, si teneva il raccolto. Adesso ospitava i bambini dai 6 agli 11 anni;  venivano  da Lisca, Chianu 'u Janni, Serra d'Acino, Valentune, Nucitu, Savucina ecc. I primi tempi venivano per lo più accompagnati da familiari, curiosi di conoscere la  maestra  e di farsi conoscere.

I maschi, più grandicelli, avevano già un'esperienza  lavorativa: pascolavano il bestiame e aiutavano i genitori nei piccoli lavori: raccogliere la legna, tagliarla, zappettare ecc. Arrivavano trafelati, dopo aver fatto di corsa i "tratturi" che conoscevano a memoria. Erano spavaldi, già uomini in miniatura rotti  alla fatica e abituati alla miseria.

Portavano i vestiti che erano stati del padre  o del fratello maggiore, mai lavati perché  si sarebbero sciupati per cui sopra la stoffa c'era come una patina impermeabile e sulla manica destra piccole stille mai del tutto asciugate.

Questa era la mia classe, cioè la mia pluriclasse dalla 1a alla 5a.



domenica 13 luglio 2025

Costumi di paese di Maria Coltellaro (1921- 2008) - Le vecchie - 4

 Le vecchie erano le persone più afflitte. 

Trascorrevano le lunghe, interminabili ore del giorno d'inverno accanto al fuoco a scaldarsi le ossa rose dal'artrite: d'estate cercavano il sole sullo scalino della porta.

Esse erano i contenitori della sapienza. Sapevano le storie vere e le leggende. Conoscevano del paese fatti e misfatti e di ogni persona tutto l'albero genealogico intessuto di bene e soprattutto di male.

Per la ragazzina che la spidocchiava la vecchia diventava un'epopea dove agivano spiriti e briganti, fattucchiere e folletti, guardie e ladri; e tesori... tanti tesori da scoprire.

E chi ne pagava lo scotto era il povero pidocchio.


lunedì 7 luglio 2025

Costumi di paese di Maria Coltellaro (1921- 2008) - 3 - Spidocchiamento.

 D'estate, nelle ore calde, si cercava un po' di refrigerio nelle stradine aperte, negli incroci per godere del ponentino.

Erano ore di riposo, di chiacchiere, di piccoli lavori e di spidocchiamento. Era facile vedere una ragazza con la testa poggiata sulle ginocchia materne e la madre aprirle lentamente le ciocche e avventarsi sul parassita  stringendolo tra le dita e schiacciandolo poi con voluttà tra le unghie dei pollici.

Il lavoro continuava per ore  cercando di liberare i capelli di quei piccoli semini bianchi che la femmina vi aveva attecchito con tanta arte. Erano infatti  a uguale distanza, ma uno a destra e l'altro a sinistra. Si prendeva il filo di capello dall'alto e tenendolo stretto tra le unghie si scivolava sino in fondo, liberando al vento le uova che non avrebbero più generato.

 

domenica 6 luglio 2025

Costumi di paese di Maria Coltellaro (1921- 2008) - Cimici e pulci -2

In casa l'acqua era centellinata. Una bacinella era sufficiente per tutte le abluzioni, dalla testa ai piedi. Ci si curava poco dell'igiene. E come si poteva se mancava l'acqua o il cesso? Mal comune ... 
 Così le case erano infestate di scarafaggi, formiche, topi e quant'altro vive vicino all'uomo.
I letti pullulavano di cimici, di pulci. Le pulci erano fastidiose: pungevano e volavano via. Non facevi mai in tempo a schiacciarle con le dita. Con le cimici la battaglia poteva sembrare vittoriosa perché appena accendevi la luce si muovevano incerte e lasciavano sotto il dito e sul lenzuolo una scia rossa e un odore nauseabondo. Poi, in ritirata, andavano ad annidarsi nei buchi delle tavole. Ogni notte le punture interrompevano il sonno più volte. Al mattino di tutte quelle battaglie cruente rimanevano i segni rossi e l'ira incontenibile di chi si sente continuamente sconfitto.
Ben diversa era la piaga dei pidocchi. Facevano più senso negli uomini, specialmente quando gli passeggiavano sul collo della camicia. " Sei come il pidocchio. Svergogni chi ti dà da mangiare"
Era il detto che indicava ipocriti e parassiti. Infestavano soprattutto le chiome delle fanciulle e delle vecchie.

sabato 5 luglio 2025

Costumi di paese di Maria Coltellaro (1921- 2008) 1

 Nel paese si viveva come in famiglia. Si celebravano  le feste radunandosi nelle case, suonando e ballando. Ogni occasione era buona per ritrovarsi a parte le ricorrenze speciali, quali l'uccisione del maiale, la mietitura, la raccolta delle castagne o delle patate. Un'occasione particolare era quando s'infornavano le castagne; s'invitavano i vicini e i parenti e tra risa e racconti piccanti si schiacciavano le bucce calde tra le dita e si brindava con un bicchiere di vino nuovo appena spillato. Erano momenti d'intensa euforia durante i quali i diverbi passati non contavano più, anzi si facevano progetti per l'avvenire e i giovani si scambiavano occhiate eloquenti sotto lo sguardo complice dei genitori.Il giorno dopo si litigava  per l'acqua del fiume che il vicino deviava più del convenuto nel suo terreno.

L'acqua era tutta lì, nel fiume "Cavineddre". Da lì, serpeggiando e chiusa in canali, andava nei vari  terrazzi delle proprietà private.  Le amiche di ieri, oggi avevano parole dure, invettive feroci e urli leonini l'una contro l'altra se non si osservava l'orario  convenuto.

Nessuna portava l'orologio, ma sapeva leggere nel sole  o nel cielo  o nell'ombra l'ora che le toccava.

Nel fiume le donne andavano a lavare i panni; d'estate ogni otto o quindici giorni; d'inverno una volta al mese o  a fine stagione; perché d'estate il cambio di biancheria avveniva una volta alla settimana; d'inverno le coperte di lana (le mante), o quelle di stracci (fringi) vi restavano per tutta la stagione. (continua)


martedì 21 febbraio 2023

Il fischio.

 

C'è stato un tempo in cui il paese pullulava di gente. Eravamo in tanti. In ogni famiglia c'erano tre - quattro figli con picchi di otto -dieci. Le case erano piccole ( da una a tre stanze nella maggior parte) e noi bambini/e ragazzi/e ci riversavamo nelle vie. Si viveva sempre lì, dal mattino alla sera, tranne quando si andava a scuola (se ci si andava!). Si formavano piccoli gruppi di maschi e di femmine, rigorosamente divisi. Ognuno con i propri giochi e ognuno con i propri capi. Sì, perché c'era sempre qualcuno che con maggiore personalità s'imponeva agli altri e dirigeva la vita del gruppo. Eravamo organizzati un po' come i ragazzi della via Pal. I maschi difendevamo il nostro territorio e organizzavamo spedizioni punitive verso altre vie. Le femmine vivevano più isolate e più tranquille.Naturalmente anche nell'interno del gruppo c'erano lotte, nate per mantenersi in esercizio o per rompere la monotonia della giornata.

Nella zona Chianietto il capo indiscusso era Micu. Esercitava un certo fascino e intorno a lui s'era creato un gruppo abbastanza numeroso di ragazzi che ubbidiva ciecamente alle sue decisioni. Era un ragazzo che dimostrava coraggio e abilità nel fare le cose. Forte fisicamente, rapido nelle decisioni. Non temeva nessuno (tranne sua madre) e durante la giornata il suo pensiero era sempre in attività per organizzare qualcosa di nuovo e di movimentato. Scorrazzava per vie e campagne incurante del pericolo e godeva ogni qualvolta poteva fare a botte. Cercava lo scontro e qualsiasi pretesto era buono per metterlo in atto. Giocava tiri mancini a giovani e anziani. Si divertiva con la fionda con cui difficilmente sbagliava bersaglio. Amava raccogliere residui bellici e riciclava la polvere per farla poi scoppiare. Una volta indugiò troppo nei preparativi e gli andò male. Gli saltò una mano e restò invalido per tutta la vita. Nella sfortuna fu fortunato perché ottenne un lavoro nella prefettura di Roma, dove lavorò sino all'andata in pensione.

Micu per chiamare a raccolta i “ suoi “ ragazzi usava un metodo particolare: lanciava un fischio inimitabile che riproduceva in parte quello del merlo. E come un'eco il fischio, facilmente riconoscibile, si riproduceva, in altri modi, negli angoli della via riunendo, intorno a lui, in pochi minuti, tutti i ragazzi della zona. Del gruppo faceva parte Vincenzo che al suo richiamo, come tutti gli altri, accorreva velocemente. Era il suo idolo ed era felice quando poteva seguirlo nelle sue scorribande e nelle sue nuove avventure. Gli piaceva anche sentirlo cantare perché Micu aveva una bella voce ed era maestro nelle serenate. Dopo l'incidente le loro strade si divisero e per molto tempo non si videro più. Già grande, Vincenzo capitò a Roma e sentì il desiderio di rivederlo. Non sapeva dove abitasse, ma ricordava che lavorava alla Prefettura. E fu lì che si recò. Trovarlo era come cercare un ago nel pagliaio e più che chiedere all'uno o all'altro pensò di ricorrere al fischio caratteristico della loro infanzia. Lo fece. Una, due, tre volte. Al terzo tentativo ci fu la risposta. Un fischio prolungato attraversò le stanze della prefettura, suscitando anche lo stupore e la curiosità della gente. Il richiamo continuò dall'una e dall'altra parte sino a quando i due vecchi amici si avvicinarono sempre più e quando furono l'uno davanti all'altro s'abbracciarono a lungo, felici di essersi ritrovati.






domenica 12 febbraio 2023

A fuiuta

 Conflenti - 12 febbraio 2023 - 

vite rubate


A fujùta - Di fronte agli ostacoli frapposti dai genitori, due giovani, che non intendevano rinunciare al loro amore si allontanavano dalle loro famiglie.


Tessere di storia del Novecento 

Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.


A fujùta

 

 

Era la settimana di Pasqua dell’anno 1939. In casa notai preparativi insoliti: si facevano pulizie pasquali più accurate degli anni precedenti, e mia un mamma sceglieva dalla dispensa le provviste migliori come si usava per mandare doni a persone di riguardo o per disobbligarsi di un favore ricevuto. Quando chiesi spiegazioni, mi risposero che dovevano venire i parenti del mio pretendente ad avanzare la richiesta ufficiale del matrimonio, e che erano stati già presi tutti gli accordi. Il giovane, dissero, apparteneva a una “buona famiglia”, ossia una famiglia benestante, perciò era un’occasione onorevole e i miei genitori ne andavano orgogliosi.

In realtà, il pretendente non era più tanto giovane, e il matrimonio era stato cumminatu (concordato) tramite vari passaggi intermediari. Secondo l’uso di quei tempi, nessuno si era curato del mio parere, anzi tutti mi giudicavano fortunata perché, pur appartenendo a una famiglia modesta e pur essendo una bella giovane, facevo un matrimonio superiore alla mia condizione. I miei genitori, come era solito in casi del genere, non volendo sfigurare presero a fare molti sacrifici per rendere il mio corredo adeguato al miglioramento sociale a cui andavo incontro, anche perché bisognava esporre il panname che era soggetto al giudizio della comunità. Secondo la consuetudine, i matrimoni dovevano avvenire tra pari, perciò nel mio caso, che fuoriusciva dalla norma, c’era un rigore maggiore nell’osservare l’impegno della mia famiglia nel conquistarsi il merito della scalata sociale.

Intanto, avendomi fidanzato ufficialmente con l’impegno dell’anello, le due famiglie si scambiavano doni e visite. Ribellarsi era inutile. Io, che da tempo avevo conosciuto Gennaro, un giovane che mi spiaceva, non potevo fare altro che comportarmi con sotterfugi ricorrendo all’unica scelta possibile della fujuta. Incominciai perciò ad accelerare i tempi. Era necessario scappare prima di fare la promessa solenne sul registro del prete; quanto ai Capitoli, che era il contratto di matrimonio presso un notaio, anche se io non avevo dote la famiglia dello sposo poteva pretendere comunque un contratto per mettere nero su bianco tutte le formalità. La promessa solenne e il contratto erano due passaggi troppo vincolanti per le famiglie; a quel punto il matrimonio si considerava compiuto, e se una delle parti provocava la rottura restava compromessa e malvista da tutto il paese.

Non c’era molto da preparare per la fujuta. Avevamo però bisogno di qualcuno che collaborava mantenendo il segreto. E noi avevamo dalla nostra parte una mia amica fedele e la famiglia di Gennaro, che sapevano dei nostri progetti e ci aiutarono a fare la scappata.

I miei genitori non mi perdonarono, perché avevo provocato un’inimicizia con la famiglia dell’uomo che era stato scelto per me. Non era solito rompere il matrimonio dalla parte della donna, anzi era un affronto che divideva persino le generazioni successive delle due famiglie. Io e Gennaro ci sposammo senza festeggiamenti, e partimmo in Australia per andare lontani da quel clima di rancori.

La vita è stata dura specialmente i primi tempi dell’emigrazione, ma non mi sono mai pentita di quella fujutina, e da qualche anno siamo rientrati in Italia, dove finalmente i matrimoni non li fanno più i genitori ma ognuno si sceglie chi vuole sposare.

Vittoria Butera

Eugenio Giudice

sabato 4 febbraio 2023

Le scarpe.

 Conflenti - 04 febbraio 2023 - 

vite rubate

Le scarpe a ore

Tessere di storia del Novecento 

Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.


Ai miei tempi la povertà imperversava nei paesi. Essere malvestiti, malnutriti, senza nessuna cura dell'aspetto e della salute era la normalità della gente comune. Io ero molto orgogliosa e cercavo di mascherare la povertà, perché la mia famiglia era stata benestante e aveva avuto la possibilità di distinguersi in meglio nel modo di vestire e di vivere.

La vita è 'nu saliscinni (un saliscendi), ma noi non ci eravamo rassegnati e ci restava l'orgoglio del passato. Quanto al futuro, non mancava la speranza di ritornare nella situazione che avevamo perduto; intanto soffrivamo per la scarsezza di tutto, anche del cibo.

Un giorno una mia amica riferì che la mamma aveva preparato le polpette. Lo disse con tanta enfasi che io, dijuna cum'eru (essendo al digiuno), al solo pensiero del cibo ebbi quasi uno svenimento. Quando mi ripresi mi vergognai, e dissi che avevo mangiato troppe polpette che mi avevano provocato quel malore. Per rendere più verosimile la mia sazietà, aggiunsi che una volta al mese mia mamma e le sue amiche si riunivano a casa di una o di un'altra di loro e facevano una scialata (un banchetto festoso) con polpette di riso, di carne o di patate. Questo era solo un ricordo dei tempi del benessere, ma che non si sarebbe realizzato per altri decenni.

Siccome non eravamo abituati ad andare scalzi come tanti altri, mia mamma risparmiando sul cibo riuscì a comprare un paio di scarpe, che io e mia sorella metteva-io a turno. Erano dei mocassini adattabili a tutte le stagioni. Io avevo una misura più piccola rispetto a mia sorella, e quando toccava a me uscire imbottivo l'interno con qualche pezza. Dovevo fare un grande sforzo a camminare, ma l'orgoglio mi portava a stare diritta senza badare al fastidio.

Poi, crescendo insieme al corpo anche i piedi, fu mia sorella ad avere difficoltà a calzare quei mocassini perché erano diventati piccoli per lei mentre per me erano giusti. Allora mia mamma, non potendone comprare altri, li fece spuntare dal calzolaio, così continuammo a metterli a turno con le dita che fuoriuscivano.

Vittoria Butera

mercoledì 21 dicembre 2022

Preparativi per Natale.

 Conflenti - 21 dicembre 2022- Sin dall’estate s’incominciava a seccare la frutta e a fare provviste speciali da consumare la sera di Natale.


Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.


Sin dall’estate s’incominciava a seccare la frutta e a fare provviste speciali da consumare la sera di Natale, quando secondo la tradizione bisognava mettere in tavola un numero determinato di alimenti. Il numero variava da un paese all’atro: sette, tredici, o nove; comunque si diceva “la cena delle nove cose”. Il giorno si digiunava, sia perché il digiuno prefestivo era una norma della religione, sia per rifarsi con la cena natalizia, la cui preparazione impegnava le donne di casa per l’intera giornata.

Il menù nei paesi montani non variava da un natale all’altro e neppure da una all’altra famiglia: pasta con baccalà o con sarde; baccalà fritto e in umido; cavoli e broccoli bolliti; pane fatto in casa e grispelle. Un grande canestro era riempito con noci, mele, castagne, fichi secchi, uva secca conservata appesa al soffitto o tra le felci nelle soffitte, pere locali dette pirajine vernitiche. I dolci tipici di natale erano: turdilli, scalille, nacatule, crocette, grispelle immerse nel miele.

Vittoria Butera

L'emigrazione vicina.

 Conflenti è stato sempre un paese d'artigiani: barilai, cestai ecc. 

Tanti riuscivano a vivere e a sostenere la famiglia, lavorando nell'interno del paese; altri  preferivano emigrare nei paesi vicini. I cestai  erano molto richiesti  nei paesi di produzione di frutta, soprattutto fichi, perché c'era bisogno di contenitori per i prodotti ( spurtuni soprattutto). Tra i paesi,  dove negli anni Quaranta e primi anni Cinquanta avveniva questa emigrazione, ricordiamo: Cerisano e San Lucido in provincia di Cosenza.  Molti conflentesi lavorarono in questi luoghi per brevi periodi; altri si stabilirono lì definitivamente.

domenica 18 dicembre 2022

La discesa dei contadini.

 

Domenica e nei giorni di festa i contadini scendevano a valle, nel paese. Da soli o con la famiglia, a piedi o a dorso di asino. All'entrata del paese espletavano le operazioni di rito: mettevano le scarpe nuove e cambiavano vestito. Poi si dirigevano verso la chiesa di loro gradimento: San Nicola o il Santuario. Dopo aver partecipato diligentemente alla messa, uscivano e facevano il giro dei negozi per fare la spesa per tutta una settimana. Compravano soprattutto quei generi alimentari che nelle loro zone era difficile trovare: zucchero, pasta ecc. E i loro acquisti mantenevano in vita i negozi conflentesi che, all'epoca, erano numerosi. Il ritorno era un po' diverso per gli uomini e le donne. A quest'ultime toccava il compito di portare a casa gli acquisti fatti e certamente non era un compito facile. Rientravano quindi per prime. Gli uomini, soprattutto i giovani, si concedevano una pausa nelle “cantine” del paese che, stranamente (?), si trovavano nelle vie d'uscita. Un fiasco di vino, qualche lupino e un mazzo di carte li occupavano per un po' di tempo e poi, un po' brilli, facevano ritorno a casa. Il vino, la stanchezza rendevano il percorso del ritorno più lungo, ma dopo una settimana di duro lavoro ognuno di loro era felice di essersi concesso una piccola trasgressione.

domenica 4 dicembre 2022

Maria

 Camminava sempre con un figlio in braccio,

 frutto di un amore vissuto intensamente,

finito male per un falso concetto dei valori sociali.

sabato 26 novembre 2022

Ricordando il passato.

 Conflenti - 26 novembre 2022

Ricordando il passato


Conflenti. Chiuso nella stretta corona dei monti di una estrema propaggine della Sila, il mio paese mi forniva una visuale troppo limitata perché lo sguardo potesse oltrepassare le vette e raggiungere l’infinito aldilà della siepe leopardiana. Mi sovrastava un cerchio di cielo, che di sera, riempiendosi di stelle, si congiungeva al divino come fosse la cupola di una cattedrale sostenuta dai pilastri delle cime montane. Di giorno, quel cerchio di cielo, sebbene apparisse isolato dalla distesa cosmica, me ne portava il respiro coinvolgendomi nei misteri di lontananze sconosciute.

Il monte che vedevo di fronte è il Reventino. Mi sottraeva il sole non molto dopo essersi allontanato dallo zenit, lasciando che le ombre incominciassero a preparare la discesa nel paese. Quello stesso monte diffusore di ombre preserali propagava nello stesso tempo un sentimento religioso. Erano la chiesetta della Querciuola eretta sul suo culmine, e la purezza incontaminata dei boschi che conservando il senso ancestrale del sacro lo collegano al divino. Il venerdì sera, all’ora del vespro, ci affacciavamo da finestre e balconi rivolgendo lo sguardo e l’anima alla Querciuola sul monte. Tenevamo una candela accesa in attesa che scendesse lo Spirito Santo. Non so quali preghiere bisbigliasse mia mamma, essendo sussurrate per non interrompere la religiosità del silenzio. Il silenzio. Anche la parola potente della preghiera si annulla davanti al silenzio.


Per me in quella fase d’età, come per le generazioni primordiali, il mondo era interamente divino, in particolare i territori sconosciuti aldilà delle montagne e le distese marine, dove il mio sguardo, varcando la linea di unione con il cielo, navigava fino a raggiungere gli spazi sconfinati del cosmo e, superando anche quel limes, mi introduceva nei giardini paradisiaci.

Trascorrevo tre stagioni tra i monti; l’estate al mare di Pizzo. Durante la lunga permanenza a Conflenti, a volte nelle giornate di primavera, andavo a scoprire l’altra faccia di quel cerchio di cielo all’interno delle acque fluviali scorrenti lungo le radici del Reventino. I rintocchi delle campane si espandevano inumidendosi nel vapore dell’aria, e l’eco li amplificava oltre l’alto orizzonte montano da dove li riportava sapidi di un altrove numinoso. Il cielo si duplicava: il cielo in alto; il cielo all’interno del fiume. Sporgendomi oltre il margine della sponda, m’illudevo di toccarlo, d’immergermi tra le sue nuvole; e invece, quello fuggiva scorrendo insieme alle acque e precipitando in profondità inaccessibili. Sui fondali del fiume, la continuità del cielo appariva interrotta, frantumato lo spazio infinito ed eterno. Ora il cielo, non più inalterabile e perenne, lo percepivo pari, per fragilità, agli esseri terreni che la morte può scindere in qualsiasi momento, strapparli dalle loro dimore, sottrarli agli affetti. Avevo già sperimentato la morte di persone care, e non mi confortava la corrispondenza tra il mistero del cielo e le esistenze terrene. Non mi rasserenava la scoperta delle fragilità comuni tra la natura e la vita umana; piuttosto, m’insinuava nell’animo una malinconia che soltanto in seguito avrei collegato alla perdita delle certezze in punti di riferimento metafisici.

Vittoria Butera (una pagina autobiografica)

venerdì 25 novembre 2022

Giornata contro la violenza.

In riferimento a questa giornata, vorrei ricordare che a Conflenti, nel secolo scorso, la violenza sulle donne, nell'interno delle case, era molto frequente. Tanti uomini per imporre le proprie ragioni e la propria autorità preferivano usare metodi violenti.

Le donne, prive di ogni sostentamento, erano costrette a subire; anche perché dall'esterno non veniva nessun  aiuto. Famiglia, parenti e compaesani preferivano ignorare e fare finta di non vedere e di non sentire. Pertanto nelle stesse donne subentrava la rassegnazione.  Ricordo ancora che, di tanto in tanto, nel paese avvenivano degli stupri di ragazze minorenni. Nessun aiuto a queste povere ragazze che,  senza colpa, venivano  disprezzate. I colpevoli continuavano la loro vita come se nulla fosse successo; anzi ci guadagnavano in prestigio.

martedì 15 novembre 2022

sabato 8 ottobre 2022

Il comune senso del pudore.

Il linguaggio scurrile, a livello popolare, era frequente nel paese nel secolo scorso, ma si differenziava per  luogo,  persone,  situazioni.

 Una prima distinzione  è quella tra uomini e donne e, per quanto riguarda quest'ultime, tra le parole che usavano dentro e fuori l'ambiente familiare.

Gli uomini erano abbastanza liberi nel linguaggio. Usavano gli stessi termini, sia in casa che fuori; cazzo, ad esempio, era un intercalare abbastanza frequente. Certamente nell'uso di termini ritenuti volgari, non si ponevano problemi.

Per le donne non bisogna  generalizzare. Ce n'erano  (poche) che usavano quasi sempre un linguaggio  casto, altre (molte) che lo rendevano molto più colorito, arricchendolo con termini di chiaro riferimento sessuale. Nelle case, parole come: sticchio  cunnu,  nculare,  culu, cugliunijare ecc. erano d'uso abbastanza comune e frequente.

Nel rapporto con gli altri, invece, subentrava un maggiore  senso del pudore e si edulcoravano tantissime parole. Per dire che una donna era prena (la parola incinta era ignorata) si diceva che x aspettava. Non si partoriva, ma si comprava un figlio. Le mestruazioni erano chiamate cose e se qualcuna aveva il ciclo si diceva ch'era malata. Fare l'amore (trombare) si diceva giocare o se curcare insieme. Un mondo quindi  dove le parole  si usavano in modo diverso secondo gli ambienti, familiari o non.

domenica 30 maggio 2021

und'è tuttu oru chiddru chi luce-

 Un'altra storia triste del paese è che esistevano dei violentatori seriali. Non erano tanti, ma "lavoravano" a pieno ritmo. Adescavano delle ragazze ancora adolescenti e le violentavano. Il risultato era che queste ragazze,  appena si sapeva della violenza subita (o che erano in cinta), venivano, nello spazio di una notte,  portate in città lontane e sposate al primo venuto. Se restavano in paese, maritate  con uno dei gonzi del luogo. Marchiate tutta la vita come puttane. E l'uomo?  Nessun problema. Continuava la sua vita di prima come se niente  fosse successo. Aumentava la sua fama di donnaiolo e si preparava  al prossimo colpo: alla prossima ragazza da violentare.

venerdì 28 maggio 2021

Und'è tuttu oru chiddru chi luce

 Il tempo  abbellisce il passato  e, generalmente, sembra tutto idilliaco  tutto ciò che riguarda il nostro mondo  di ieri e dei nostri avi.  Non è così. Spesso ci si scorda di situazioni  riprovevoli e di comportamenti vergognosi. Ignorare è un peccato, particolarmente verso le nuove generazioni. Accanto al bene è esistito sempre il male e non esiste un paradiso in terra.

Nella prima metà del Novecento e nei secoli precedenti, le famiglie erano  molto numerose: una media di quattro- cinque figli con punte dai dieci ai quindici. Qualche caso di venti figli.

Considerando la miseria dell'epoca non tutte la famiglie riuscivano ad allevare tutti i figli e allora  li  mandavano, ancora piccolissimi, come servi in altre famiglie, non tutte abbienti. Qualche volta come pastori in montagna.  Non ho  prove di vendite e non posso affermarlo, ma il sospetto resta. Quel ch'è certo, constatato con i miei occhi, è che questi ragazzi venivano trattati, il più delle volte, come  schiavi. Lavoravano tutto il giorno  e per tutta la settimana.  Anche i festivi. Di soldi, neanche a parlarne. I loro vestiti erano quelli usati e spesso rotti dei loro padroni.  Mangiavano in disparte dalla famiglia,  di solito sulle scale  e   un pasto notevolmente ridotto rispetto agli altri. Dormivano sul pavimento, con una vecchia coperta per terra. Le ragazze, nel periodo della pubertà, venivano violentate e poi usate come schiave sessuali. Se c'erano figli, venivano abilmente nascosti e mandati all'orfanotrofio. Qualcuna, per evitare il disonore (causato dallo stesso padrone), veniva allontanata dalla casa.

Questi ragazzi non sapevano né leggere né scrivere e quindi perdevano completamente i contatti con la famiglia d'origine. Le istituzioni non li tutelavano e la gente  che vedeva le loro sofferenze preferiva voltarsi dall'altra parte. Lamentarsi per loro era inutile e, col tempo, subentrava la rassegnazione.  Qualcuno, per tutto  questo tempo, covava un  odio che poi esplodeva in fenomeni di violenza nella maggiore età.