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giovedì 9 settembre 2021

La rivincita di Grazia.

 Dopo aver vissuto una vita di stenti e di solitudine,  Grazia  si prende la sua rivincita diventando il simbolo di un mondo femminile del passato.



I colori di piazza Loreto 

Il Marrone 

“L'autunno, così carico di caldo cromatismo nei vari climi terrestri, copriva il mio paese del colore delle castagne, gocciolanti dai ricci dischiusi a ritmi sempre più frequenti con l'avanzare della stagione.

Le foglie dei castagneti, fitti sulle colline, abbandonata la prima colorazione del senape giallognolo, si omologavano agli esocarpi e, man mano il vento le staccava dai rami, saturavano l'etere di marrone. Concessisi ampi volteggiamenti nella libertà dell'aria, finivano al suolo, dove costituivano un denso tappeto destinato a scurire sotto le piogge e al calpestio delle raccoglitrici.

Il marrone predominava sino a diventare sensazione olfattiva, sapore: esalava sfumato dall'odore pungente della legna accatastata davanti alle case per le riserve invernali; fuoriusciva dai sacchi ricolmi di castagne in sosta sui ballatoi, e riempiva gli animi di monotonia.

Quando ormai l'autunno aveva compiuto il suo ciclo con l'esiguo bagaglio cromatico, il marrone, alleggerito negli elementi paesaggistici, tornava con i tramonti del sole Insieme a Grazia.

Lei compariva nella strada soprastante piazza Loreto, dove, in forme di frequente coralità, si svolgeva la vita rionale. Più che vestita, era avvolta nei capi essenziali del Complesso costume tradizionale: la camicetta consunta dall'uso; la gonna molto più esigua dell'ampio indumento prescritto dalla foggia locale; il copricapo allungato su parte del volto; tutta in un marrone macerato dal tempo.

Gradazioni dello stesso colore ammantavano le scarne capre.

Un tramonto dietro l'altro, Grazia arrivava in mezzo al cupo gregge. IA soltanto rientrare. L'alba non la coglieva mai nel paese, ancora addormentato alla sua partenza per il pascolo. Con la testa bassa e dondolante, del tutto assorta nelle vicende del gregge, attraversava la piazza senza osservare la gente né badare agli accaduti.

Gli uomini, seduti sul muretto e sulla gradinata del sagrato, continuavano a discutere; nonostante le norme consuetildinarie lo esigessero, nessuno scambiava con lei convenevoli. La sua presenza non era appariscente: assorbita nello scampanio delle capre, avanzava, occupava la piazza, poi, si allontanava nella scia aromatica degli escrementi e dell'erba, insaccati nell'aria e sprigionati ad ogni soffio del vento. Infusa nel belato serale, entro un'estesa macchia marrone, incupiva l'atmosfera sollecitando le tenebre, che, al suo seguito, completavano la discesa dai colli per ingoiare le case.

Scompariva in un umido locale, rischiarato dalla fioca fiamma del focolare, presso cui trascorreva poche ore di vita domestica nella continuità ininterrotta dei silenzi: qui, nella fumida penombra, la cupa figura del crepuscolo assumeva una colorazione rossastra e, a tratti, svaniva entro i scoppiettanti, che la rapivano alla sua solitudine.

 Entrava nella mia mente con la connotazione dell'eternità: così statica la sua immagine, così uguali i suoi ritmi, mi senbrava vivesse al di fuori della dinamicità degli esseri e del paesaggio; prigioniera della stasi, senza aneliti al futuro né partecipazione al presente, ferma in una stazione lontana del volto; tutta in un marrone macerato dal tempo.

Gradazioni dello stesso colore ammantavano le scarne capre.

Un tramonto dietro l'altro, Grazia arrivava in mezzo al cupo gregge.La vedevamo soltanto rientrare. L'alba non la coglieva mai nel paese, ancora addormentato alla sua partenza per il pascolo. Con la testa bassa e dondolante, del tutto assorta nelle vicende del gregge, attraversava la piazza senza osservare la gente né badare agli accaduti.

Gli uomini, seduti sul muretto e sulla gradinata del sagrato, continuavano a discutere; nonostante le norme consuetudinarie lo esigessero, nessuno scambiava con lei convenevoli. La sua presenza non era appariscente: assorbita nello scampanio delle capre, avanzava, occupava la piazza, poi, si allontanava nella scia aromatica degli escrementi e dell'erba, insaccati nell'aria e sprigionati ad ogni soffio del vento. Infusa nel belato serale, entro un'estesa macchia marrone, incupiva l'atmosfera sollecitando le tenebre, che, al suo seguito, completavano la discesa dai colli per ingoiare le case.

Scompariva in un umido locale, rischiarato dalla fioca fiamma del focolare, presso cui trascorreva poche ore di vita domestica nella continuità ininterrotta dei silenzi: qui, nella fumida penombra, la cupa figura del crepuscolo assumeva una colorazione rossastra e, a tratti, svaniva entro i scoppiettanti, che la rapivano alla sua solitudine.

 Entrava nella mia mente con la connotazione dell'eternità: così statica la sua immagine, così uguali i suoi ritmi, mi sembrava vivesse al di fuori della dinamicità degli esseri e del paesaggio; prigioniera della stasi, senza aneliti al futuro né partecipazione al presente, ferma in una stazione lontana del tempo.”

I colori

di Vittoria Butera