Conflenti - 12 febbraio 2023 -
vite rubate
A fujùta - Di fronte agli ostacoli frapposti dai genitori, due giovani, che non intendevano rinunciare al loro amore si allontanavano dalle loro famiglie.
Tessere di storia del Novecento
Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.
A fujùta
Era la settimana di Pasqua dell’anno 1939. In casa notai preparativi insoliti: si facevano pulizie pasquali più accurate degli anni precedenti, e mia un mamma sceglieva dalla dispensa le provviste migliori come si usava per mandare doni a persone di riguardo o per disobbligarsi di un favore ricevuto. Quando chiesi spiegazioni, mi risposero che dovevano venire i parenti del mio pretendente ad avanzare la richiesta ufficiale del matrimonio, e che erano stati già presi tutti gli accordi. Il giovane, dissero, apparteneva a una “buona famiglia”, ossia una famiglia benestante, perciò era un’occasione onorevole e i miei genitori ne andavano orgogliosi.
In realtà, il pretendente non era più tanto giovane, e il matrimonio era stato cumminatu (concordato) tramite vari passaggi intermediari. Secondo l’uso di quei tempi, nessuno si era curato del mio parere, anzi tutti mi giudicavano fortunata perché, pur appartenendo a una famiglia modesta e pur essendo una bella giovane, facevo un matrimonio superiore alla mia condizione. I miei genitori, come era solito in casi del genere, non volendo sfigurare presero a fare molti sacrifici per rendere il mio corredo adeguato al miglioramento sociale a cui andavo incontro, anche perché bisognava esporre il panname che era soggetto al giudizio della comunità. Secondo la consuetudine, i matrimoni dovevano avvenire tra pari, perciò nel mio caso, che fuoriusciva dalla norma, c’era un rigore maggiore nell’osservare l’impegno della mia famiglia nel conquistarsi il merito della scalata sociale.
Intanto, avendomi fidanzato ufficialmente con l’impegno dell’anello, le due famiglie si scambiavano doni e visite. Ribellarsi era inutile. Io, che da tempo avevo conosciuto Gennaro, un giovane che mi spiaceva, non potevo fare altro che comportarmi con sotterfugi ricorrendo all’unica scelta possibile della fujuta. Incominciai perciò ad accelerare i tempi. Era necessario scappare prima di fare la promessa solenne sul registro del prete; quanto ai Capitoli, che era il contratto di matrimonio presso un notaio, anche se io non avevo dote la famiglia dello sposo poteva pretendere comunque un contratto per mettere nero su bianco tutte le formalità. La promessa solenne e il contratto erano due passaggi troppo vincolanti per le famiglie; a quel punto il matrimonio si considerava compiuto, e se una delle parti provocava la rottura restava compromessa e malvista da tutto il paese.
Non c’era molto da preparare per la fujuta. Avevamo però bisogno di qualcuno che collaborava mantenendo il segreto. E noi avevamo dalla nostra parte una mia amica fedele e la famiglia di Gennaro, che sapevano dei nostri progetti e ci aiutarono a fare la scappata.
I miei genitori non mi perdonarono, perché avevo provocato un’inimicizia con la famiglia dell’uomo che era stato scelto per me. Non era solito rompere il matrimonio dalla parte della donna, anzi era un affronto che divideva persino le generazioni successive delle due famiglie. Io e Gennaro ci sposammo senza festeggiamenti, e partimmo in Australia per andare lontani da quel clima di rancori.
La vita è stata dura specialmente i primi tempi dell’emigrazione, ma non mi sono mai pentita di quella fujutina, e da qualche anno siamo rientrati in Italia, dove finalmente i matrimoni non li fanno più i genitori ma ognuno si sceglie chi vuole sposare.
Vittoria Butera
Eugenio Giudice
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