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Nel retroterra del medio Tirreno calabro, sul finire del XIV secolo, fu
edificata Serrastretta[1].
Tra il verde variegato dei cerri, dei tigli, dell’intricato sottobosco, si elevavano flessuose piante avventizie a coprire i tronchi di trine e merletti vegetali. Qui la primavera profumava di amenti dolciastri, di aromi macerati dai vapori di numerosi corsi d’acqua. Un torrente cingeva lateralmente il paese come un nastro d’argento, assecondando con la flessuosità dell’alveo il pendio del sito. E’ il torrente Perna, a cui diedero il mio nome per tramandare il ricordo di una vita segnata da un presagio astrale.
Tra il verde variegato dei cerri, dei tigli, dell’intricato sottobosco, si elevavano flessuose piante avventizie a coprire i tronchi di trine e merletti vegetali. Qui la primavera profumava di amenti dolciastri, di aromi macerati dai vapori di numerosi corsi d’acqua. Un torrente cingeva lateralmente il paese come un nastro d’argento, assecondando con la flessuosità dell’alveo il pendio del sito. E’ il torrente Perna, a cui diedero il mio nome per tramandare il ricordo di una vita segnata da un presagio astrale.
Prima
di narrare i fatti ricorderò i tempi in cui si svolsero. Erano i primi decenni
del 1600. In
Serrastretta s’intensificavano i palazzi nobiliari e gli edifici di culto. Al
centro sorgeva la chiesa Matrice di Santa Maria del Soccorso, patrona del
paese; la prospettiva a oriente del primo impianto, durante un restauro, fu
volta a mezzogiorno. Di fronte alla più antica facciata era stato costruito il
palazzo dei Talarico, una delle famiglie fondatrici. Nel secolo XVII, un
esponente di questo casato scelse la via ecclesiastica.
Don
Vincenzo Talarico conciliava la fede cattolica con l’astrologia divinatrice,
secondo la quale da un’esatta interpretazione delle epifanie astrali si possono
prevedere le sorti umane. Era una sera di primavera. Don Vincenzo era immerso
nella lettura dell’opera “Orazione sulla dignità dell’uomo” di Pico
della Mirandola, quando la luce solare sempre più fioca lo lasciò sulla frase:
“Il mago...esplorato il mutuo rapporto delle cose e recando ad ogni cosa le
adatte lusinghe, porta alla luce i miracoli nascosti nel mondo, nel grembo
della natura, nei misteri di Dio”.
Continuando
a meditare su questo concetto, l’astrologo si affacciò ad osservare i
malinconici spasimi del giorno morente tra l’architettura umbratile dello
spazio sacro. Gli ultimi rigagnoli di luce scorrevano sul selciato della piazza
lasciando alla chiara tonalità della cattedrale la possibilità di tralucere
ancora, quasi a rassicurare la gente della vigilanza sacra entro le tenebre della
notte. Dalle fessure delle finestre, prive di vetri, trapelavano le fiammelle
delle lucerne accese negli interni. Non era una notte particolarmente stellata.
Consentiva, comunque, di osservare il cielo entro la sua circonferenza, che per
l’astrologo plotiniano rappresentava la sua stessa anima ruotante “in
un’orbita di ragionamento”.
Don Vincenzo rifletteva sulle
corrispondenze tra l’anima razionale del cielo e l’anima umana, allorché fu
turbato da una visione: i raggi di due stelle incontrandosi costituivano la
forma di coltelli incrociati. Quell’immagine, filtrata da un leggero velo
nebbioso, appariva ribassata e più vicina alla terra con le lame rivolte su
un’umile casa. Che quel segno fosse una premonizione fu lampante per
l’astrologo, perciò si precipitò nella dimora indicata dagli astri, dove una
donna stava per partorire. Sull’uscio lo colse un allegro vociare. Parenti e
vicine ingannavano l’attesa eseguendo un procedimento divinatorio, residuo
dell’antica aruspicina. Inciso lateralmente un rene di maiale, lo avevano
immerso in un recipiente d’acqua sul focolare per avere un’anticipazione sul
sesso del nascituro: se il rene avesse mantenuto l’incisione restando aperto,
sarebbe nata una femmina; se si fosse richiuso sarebbe arrivato un maschio. Senza
interessarsi al rituale arcaico, il sacerdote raggiunse l’ostetrica e la
sollecitò a ritardare il parto sino all’alba, quando la minaccia astrale,
scomparendo dal cielo, non avrebbe avuto più influenza sul neonato.
Gli
sforzi per procrastinare il parto furono inutili e la nuova esistenza si aprì
alla luce sotto il segno sinistro. Nacqui. Ero una bambina di rara bellezza,
perciò mi chiamarono Perna, che nel linguaggio locale vuol dire perla. Il mio
aspetto delizioso, le doti crescenti rimossero l’inquietudine della spada
astrale pendente sul mio capo.
Avevo
sedici anni il giorno in cui il destino incominciò a ordire le sue
macchinazioni. Ricorreva la festa del Santo patrono. Noi ragazze indossammo la
camicetta ricamata e ci pettinammo i lunghi capelli prima di occultarli sotto
il copricapo prescritto sin dalla pubertà [2].Con la vaga civetteria che caratterizza la fanciullezza, solevo lasciare fuoriuscire
qualche ciocca per incorniciare il volto. Girovagando per la fiera, favorite
dalla libertà del giorno festivo, io e le mie amiche giungemmo all’Annunziata,
la chiesetta costruita sulla sommità del complesso urbanistico per volontà di
un eremita. Qui conobbi Fedele, un giovane del vicino paese Miglierina, a cui
era stato affidato il restauro dell’edificio. L’amore esplose immediato e
reciproco. Non era facile incontrarsi ma, favoriti da una rete di intermediari,
ci vedevamo in convegni nell’estasi dell’amore.
I
matrimoni, in quei tempi e sino ai primi decenni del 1900, in Calabria venivano
decisi dai genitori. Rari erano i casi d’innamoramento spontaneo tra due
giovani sia per la difficoltà degli incontri sia per gli screzi tra le famiglie [3].
Io e Fedele non osservammo le norme comuni. Temendo possibili impedimenti da parte dei familiari, non svelammo i nostri sentimenti. Incontrandoci in segreto evitavamo la sorveglianza, che diventava d’obbligo nei fidanzamenti ufficiali. Non passò molto tempo e rimasi incinta. Mia madre, informata della situazione, si adoperò a organizzare il matrimonio prima che la notizia si divulgasse e specialmente prima che ne venissero a conoscenza i componenti maschili della famiglia. Mio padre e i miei fratelli avrebbero potuto reagire secondo gli schemi ancestrali dell’“onore” uccidendo noi due, i colpevoli. A vanificare le precauzioni di mia madre intervennero le voci pettegole, i sussurri, che con la loro consueta celerità esercitarono un’azione capillare di propaganda: volarono, bocca dopo bocca, casa per casa, da un vicolo all’altro finché giunsero agli orecchi di Bastiano, il maggiore dei miei fratelli, quando ancora Fedele si trovava al suo paese a sbrigare le pratiche per il matrimonio.
Io e Fedele non osservammo le norme comuni. Temendo possibili impedimenti da parte dei familiari, non svelammo i nostri sentimenti. Incontrandoci in segreto evitavamo la sorveglianza, che diventava d’obbligo nei fidanzamenti ufficiali. Non passò molto tempo e rimasi incinta. Mia madre, informata della situazione, si adoperò a organizzare il matrimonio prima che la notizia si divulgasse e specialmente prima che ne venissero a conoscenza i componenti maschili della famiglia. Mio padre e i miei fratelli avrebbero potuto reagire secondo gli schemi ancestrali dell’“onore” uccidendo noi due, i colpevoli. A vanificare le precauzioni di mia madre intervennero le voci pettegole, i sussurri, che con la loro consueta celerità esercitarono un’azione capillare di propaganda: volarono, bocca dopo bocca, casa per casa, da un vicolo all’altro finché giunsero agli orecchi di Bastiano, il maggiore dei miei fratelli, quando ancora Fedele si trovava al suo paese a sbrigare le pratiche per il matrimonio.
Avere
in casa una ragazza non più vergine risultava intollerabile per padri e
fratelli. Unico prezzo del riscatto era il sangue. Credenze antiche. Rituali
barbarici quanto esclusivi strumenti di riabilitazione dell’uomo nella scala
dei valori dell’epoca. Bastiano non esitò a servirsene. Ecco giunto il momento
cruento predetto dalle stelle la notte della mia nascita sedici anni prima.
Senza
sospettare quanto già pronto a compiersi, ero andata al fiume a lavare i capi
del corredo. Deposto il cesto con i panni presso un masso, avevo immerso i
piedi nelle acque correnti, felice dei pensieri d’amore che vagheggiavo. Mi
vedevo già sposa nel giorno che ogni ragazza aspettava come il più bello della
sua vita. Vagando nei territori del sogno, sorridevo al futuro. Ma ecco, mi
sento afferrare dai capelli mentre un coltello affilato mi trapassa la gola.
Tra gli spruzzi vermigli del mio sangue riconobbi la mano fraterna. Caino,
attraversando i millenni, ripeteva il suo gesto.
Affinché
fosse noto a tutti che lui, uomo di “onore”, aveva lavato l’onta dell’impudente
sorella, riempì una ciotola del mio sangue e lo mostrò come prova del riscatto
compiuto; poi, per sfuggire alla galera, visse alla macchia.
Il
mio corpo, abbandonato sulla sponda, arrossò le acque del fiume che da allora
prese il mio nome: il Perna. Consumato il delitto, spettò ancora alle voci
propagarne l’annuncio. Nonostante un retroterra di pregiudizi ottenebrasse le
menti convincendo all’efferatezza, in quella circostanza prevalse la
commozione. Gli astri (lo ricordarono tutti) avevano segnato la necessità
dell’evento, perciò io apparvi vittima di un destino ineluttabile, deciso nei
cieli. Per una volta, la pietà prevalse nella palude delle superstizioni. Il
mio corpo, ormai esangue, onorato con esequie, venne tumulato nella chiesa
dell’Annunziata dove l’amore si era reso complice del fato.
Il
giorno successivo, Fedele tornava con i doni nuziali. Fischiettando la melodia
della sua consueta serenata d’amore, con l’ansia dell’innamorato giunto al
traguardo dei desideri, mi cercava nel luogo degli incontri segreti. Traboccava
la gioia non più contenibile tra le pareti dell’anima. In un ambiente in cui i
matrimoni erano affari di famiglie, quell’amore spontaneo, che preannunciava da
molto lontano l’epoca del romanticismo,
aveva intenerito i cuori, e nessuno aveva il coraggio di stroncare nel giovane
quel momento estremo d’illusoria felicità. Toccò a mia madre portare i passi di
Fedele dai ritmi nuziali alle cadenze della morte. Stupore, incredulità, confusione
dolorante, e poi... in un solo drammatico momento, con il sogno dell’amore crollò
il mondo intero.
Recatosi nella
cripta, Fedele coprì il mio corpo, che manteneva ancora intatta la bellezza,
con il velo, le trine, i gioielli nuziali. Restando assorto nella contemplazione
si lasciò trasportare nella dimensione dei desideri interiori: vagheggiò la
comparsa della sposa nella chiesa adorna di addobbi, la consegna da parte del
padre al marito; attraversò lentamente tutte le fasi della cerimonia, finché,
inebriato dal profumo dei fiori, estasiato dai canti nuziali, si stese al mio
fianco, e lì si lasciò morire di dolore, per rimanere nell’eternità della morte
accanto a me, che aveva scelto come compagna della vita[4].
Il racconto è tratto dal libro: " Nottetempo ascoltando Destino" di Vittoria Butera ed. Città del Sole 2011
[2]Nei paesi di tradizione
magnogreca, le donne, sotto il copricapo, portavano i capelli in complesse
fogge di numerose treccioline, variamente raccolte. Poiché era necessario molto
tempo per eseguire tali acconciature, era uso pettinarsi solo i giorni festivi
prima di andare a messa.
[3]Per approfondimenti sulle
tradizioni del matrimonio, cfr. V. Butera, Itinerari nel tempo, il panno
rosso, Gezabele ed., 2002.
[4]La tradizione popolare, che ha fatto di questo dramma la storia locale di Giulietta e Romeo, collega a questo evento un canto straziante di amore e di morte (che perviene, con poche varianti, anche in altri idiomi: napoletano e serbo). Il testo produce il ritorno del promesso sposo, il modo in cui viene informato, la visita presso il corpo dell’amata, la sua morte
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