jire a trappuni.
camminare tastando.
trappuni da trappare: tastare
Dialetto di Conflenti (CZ), paese calabrese situato nella zona centro-occidentale della regione.
C'è stato un tempo in cui il paese pullulava di gente. Eravamo in tanti. In ogni famiglia c'erano tre - quattro figli con picchi di otto -dieci. Le case erano piccole ( da una a tre stanze nella maggior parte) e noi bambini/e ragazzi/e ci riversavamo nelle vie. Si viveva sempre lì, dal mattino alla sera, tranne quando si andava a scuola (se ci si andava!). Si formavano piccoli gruppi di maschi e di femmine, rigorosamente divisi. Ognuno con i propri giochi e ognuno con i propri capi. Sì, perché c'era sempre qualcuno che con maggiore personalità s'imponeva agli altri e dirigeva la vita del gruppo. Eravamo organizzati un po' come i ragazzi della via Pal. I maschi difendevamo il nostro territorio e organizzavamo spedizioni punitive verso altre vie. Le femmine vivevano più isolate e più tranquille.Naturalmente anche nell'interno del gruppo c'erano lotte, nate per mantenersi in esercizio o per rompere la monotonia della giornata.
Nella zona Chianietto il capo indiscusso era Micu. Esercitava un certo fascino e intorno a lui s'era creato un gruppo abbastanza numeroso di ragazzi che ubbidiva ciecamente alle sue decisioni. Era un ragazzo che dimostrava coraggio e abilità nel fare le cose. Forte fisicamente, rapido nelle decisioni. Non temeva nessuno (tranne sua madre) e durante la giornata il suo pensiero era sempre in attività per organizzare qualcosa di nuovo e di movimentato. Scorrazzava per vie e campagne incurante del pericolo e godeva ogni qualvolta poteva fare a botte. Cercava lo scontro e qualsiasi pretesto era buono per metterlo in atto. Giocava tiri mancini a giovani e anziani. Si divertiva con la fionda con cui difficilmente sbagliava bersaglio. Amava raccogliere residui bellici e riciclava la polvere per farla poi scoppiare. Una volta indugiò troppo nei preparativi e gli andò male. Gli saltò una mano e restò invalido per tutta la vita. Nella sfortuna fu fortunato perché ottenne un lavoro nella prefettura di Roma, dove lavorò sino all'andata in pensione.
Micu per chiamare a raccolta i “ suoi “ ragazzi usava un metodo particolare: lanciava un fischio inimitabile che riproduceva in parte quello del merlo. E come un'eco il fischio, facilmente riconoscibile, si riproduceva, in altri modi, negli angoli della via riunendo, intorno a lui, in pochi minuti, tutti i ragazzi della zona. Del gruppo faceva parte Vincenzo che al suo richiamo, come tutti gli altri, accorreva velocemente. Era il suo idolo ed era felice quando poteva seguirlo nelle sue scorribande e nelle sue nuove avventure. Gli piaceva anche sentirlo cantare perché Micu aveva una bella voce ed era maestro nelle serenate. Dopo l'incidente le loro strade si divisero e per molto tempo non si videro più. Già grande, Vincenzo capitò a Roma e sentì il desiderio di rivederlo. Non sapeva dove abitasse, ma ricordava che lavorava alla Prefettura. E fu lì che si recò. Trovarlo era come cercare un ago nel pagliaio e più che chiedere all'uno o all'altro pensò di ricorrere al fischio caratteristico della loro infanzia. Lo fece. Una, due, tre volte. Al terzo tentativo ci fu la risposta. Un fischio prolungato attraversò le stanze della prefettura, suscitando anche lo stupore e la curiosità della gente. Il richiamo continuò dall'una e dall'altra parte sino a quando i due vecchi amici si avvicinarono sempre più e quando furono l'uno davanti all'altro s'abbracciarono a lungo, felici di essersi ritrovati.
Conflenti - 18 febbraio 2023 -
vite rubate
La firma
Erano già nati sette tra fratelli e sorelle quando arrivai io
Tessere di storia del Novecento
Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti
Sono nata il 1926. La mia vita è stata uguale a quella di tutte le donne di allora, quelle delle famiglie povere, ossia quasi tutte. Erano già nati sette tra fratelli e sorelle quando arrivai io: i maschi, dopo i primi anni, andavano a ru mastru per imparare un mestiere oppure seguivano mio nonno e mio padre in campagna; le femmine più grandi aiutavano a crescere le più piccole; anch’io, a mia volta, incominciai a badare alle sorelle che vennero dopo di me. Ma la povertà e la mancanza di cure era così grande che le vidi morire una dopo l’altra.
A volte seguivo mia madre nei campi dove la chiamavano per la vendemmia, la mietitura o altre attività giornaliere; anche a me e ad altri bambini figli d’‘e iornatère (lavoratrici a giornata), venivano date piccole attività da compiere. La giornata era ricompensata con prodotti agricoli e a mia madre davano qualcosa in più per il mio lavoro.
Ero appena adolescente quando, con il permesso dei miei genitori, mi fidanzai con un ragazzo che avevo avuto come compagno di quelle giornate di lavoro infantile. Mio padre era molto geloso e non voleva che lui mi si avvicinasse, perciò quando veniva a casa eravamo sorvegliati e non potevamo neppure sederci vicini. Trascorsero dieci anni prima che, con il nostro lavoro, potessimo procurarci lo stretto necessario per mettere su casa, e finalmente ci siamo sposati e siamo vissuti felici.
Non andai a scuola. Negli anni ’50 in paese fecero un corso serale dove ho imparato a scrivere il mio nome e a conoscere i numeri, così oggi, quando vado a ritirare la pensione anziché mettere la croce posso fare la mia firma.
Vittoria Butera
Eugenio Giudice
E' morto Pietro Rombiolo. Conflentese discreto, leale, cordiale; amico di tutti. Aveva lavorato per lungo tempo in Germania. Grande tifoso del Toro. Condoglianze alla famiglia.
Conflenti - 12 febbraio 2023 -
vite rubate
A fujùta - Di fronte agli ostacoli frapposti dai genitori, due giovani, che non intendevano rinunciare al loro amore si allontanavano dalle loro famiglie.
Tessere di storia del Novecento
Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.
A fujùta
Era la settimana di Pasqua dell’anno 1939. In casa notai preparativi insoliti: si facevano pulizie pasquali più accurate degli anni precedenti, e mia un mamma sceglieva dalla dispensa le provviste migliori come si usava per mandare doni a persone di riguardo o per disobbligarsi di un favore ricevuto. Quando chiesi spiegazioni, mi risposero che dovevano venire i parenti del mio pretendente ad avanzare la richiesta ufficiale del matrimonio, e che erano stati già presi tutti gli accordi. Il giovane, dissero, apparteneva a una “buona famiglia”, ossia una famiglia benestante, perciò era un’occasione onorevole e i miei genitori ne andavano orgogliosi.
In realtà, il pretendente non era più tanto giovane, e il matrimonio era stato cumminatu (concordato) tramite vari passaggi intermediari. Secondo l’uso di quei tempi, nessuno si era curato del mio parere, anzi tutti mi giudicavano fortunata perché, pur appartenendo a una famiglia modesta e pur essendo una bella giovane, facevo un matrimonio superiore alla mia condizione. I miei genitori, come era solito in casi del genere, non volendo sfigurare presero a fare molti sacrifici per rendere il mio corredo adeguato al miglioramento sociale a cui andavo incontro, anche perché bisognava esporre il panname che era soggetto al giudizio della comunità. Secondo la consuetudine, i matrimoni dovevano avvenire tra pari, perciò nel mio caso, che fuoriusciva dalla norma, c’era un rigore maggiore nell’osservare l’impegno della mia famiglia nel conquistarsi il merito della scalata sociale.
Intanto, avendomi fidanzato ufficialmente con l’impegno dell’anello, le due famiglie si scambiavano doni e visite. Ribellarsi era inutile. Io, che da tempo avevo conosciuto Gennaro, un giovane che mi spiaceva, non potevo fare altro che comportarmi con sotterfugi ricorrendo all’unica scelta possibile della fujuta. Incominciai perciò ad accelerare i tempi. Era necessario scappare prima di fare la promessa solenne sul registro del prete; quanto ai Capitoli, che era il contratto di matrimonio presso un notaio, anche se io non avevo dote la famiglia dello sposo poteva pretendere comunque un contratto per mettere nero su bianco tutte le formalità. La promessa solenne e il contratto erano due passaggi troppo vincolanti per le famiglie; a quel punto il matrimonio si considerava compiuto, e se una delle parti provocava la rottura restava compromessa e malvista da tutto il paese.
Non c’era molto da preparare per la fujuta. Avevamo però bisogno di qualcuno che collaborava mantenendo il segreto. E noi avevamo dalla nostra parte una mia amica fedele e la famiglia di Gennaro, che sapevano dei nostri progetti e ci aiutarono a fare la scappata.
I miei genitori non mi perdonarono, perché avevo provocato un’inimicizia con la famiglia dell’uomo che era stato scelto per me. Non era solito rompere il matrimonio dalla parte della donna, anzi era un affronto che divideva persino le generazioni successive delle due famiglie. Io e Gennaro ci sposammo senza festeggiamenti, e partimmo in Australia per andare lontani da quel clima di rancori.
La vita è stata dura specialmente i primi tempi dell’emigrazione, ma non mi sono mai pentita di quella fujutina, e da qualche anno siamo rientrati in Italia, dove finalmente i matrimoni non li fanno più i genitori ma ognuno si sceglie chi vuole sposare.
Vittoria Butera
Eugenio Giudice
Conflenti - 10 febbraio 2023 -
A fimmina senza statu è cumu u pane senza levatu.
La donna non sposata è come il pane senza lievito.
Conflenti - 05 febbraio 2023 -
vite rubate
La lana dei materassi
Tessere di storia del Novecento
Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.
La lana dei materassi
Al tempo della mia nascita la mia famiglia manteneva ancora un certo benessere. Era benestante chi possedeva terreni che fornivano tutto il necessario per nutrirsi, oltre ai prodotti come olio, vino, grano, castagne, che vendendone il sovrappiù consentivano di avere il denaro da spendere per altre esigenze. Non era ricchezza come s'intende oggi, ma per la vita di allora stavamo bene. Poi ci piovvero addosso vicende dolorose, seguite alla morte di mio padre, che ci costrinsero a vendere i terreni, uno dopo l'altro, e restammo in una grande casa ma con lo stretto necessario per vivere. Non si poteva rinunciare comunque alla decenza, e a costo di non mangiare continuavamo a mantenere una donna che ci portava l'acqua e andava a lavarci i panni al fiume. Erano lavori troppo umili per adattarci a farli personalmente: la gente del paese non ci avrebbe rispettato a vederci degradate in quel modo.
La nuova situazione familiare mi lasciò senza dote, perciò non potevo fare un buon matrimonio. Per fortuna, con la decadenza economica non si perdeva la reputazione della fimiglia, e questa mi consentì di sposare un modesto proprietario che aveva la possibilità di mantenermi dignitosamente. Negli anni della guerra però la povertà giunse anche per noi. Nemmeno allora io mi rassegnai alla mancanza di un certo contegno. Allora, per rimediare al fatto di non potere comprare vestiti, escogitai di svuotare i materassi di lana che avevo avuto nel mio scarso corredo e li riempii con il crine.
La lavorazione della lana era lunga e faticosa. Io e mia suocera, essendo determinate a conseguire i nostri obietti-vi, non ci lasciammo scoraggiare dalla fatica e ci mettemmo a cardare, a lavare e a filare. Poi tingemmo le matasse con colori diversi e incominciammo a sarcire (lavorare con i ferri da maglia)
per fare maglioni, sciarpe, calzettoni, vestiti e giacconi.
Insieme a quei materassi di lana scomparve dalla mia casa l'ultima testimonianza del benessere delle mie origini; in compenso riusci a vestire la mia famiglia con indumenti caldi per l'inverno e ad ottenere quel decoro che mi aveva fatto rinunciare a dormire sul morbido.
Vittoria Butera
Conflenti - 04 febbraio 2023 -
vite rubate
Le scarpe a ore
Tessere di storia del Novecento
Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti.
Ai miei tempi la povertà imperversava nei paesi. Essere malvestiti, malnutriti, senza nessuna cura dell'aspetto e della salute era la normalità della gente comune. Io ero molto orgogliosa e cercavo di mascherare la povertà, perché la mia famiglia era stata benestante e aveva avuto la possibilità di distinguersi in meglio nel modo di vestire e di vivere.
La vita è 'nu saliscinni (un saliscendi), ma noi non ci eravamo rassegnati e ci restava l'orgoglio del passato. Quanto al futuro, non mancava la speranza di ritornare nella situazione che avevamo perduto; intanto soffrivamo per la scarsezza di tutto, anche del cibo.
Un giorno una mia amica riferì che la mamma aveva preparato le polpette. Lo disse con tanta enfasi che io, dijuna cum'eru (essendo al digiuno), al solo pensiero del cibo ebbi quasi uno svenimento. Quando mi ripresi mi vergognai, e dissi che avevo mangiato troppe polpette che mi avevano provocato quel malore. Per rendere più verosimile la mia sazietà, aggiunsi che una volta al mese mia mamma e le sue amiche si riunivano a casa di una o di un'altra di loro e facevano una scialata (un banchetto festoso) con polpette di riso, di carne o di patate. Questo era solo un ricordo dei tempi del benessere, ma che non si sarebbe realizzato per altri decenni.
Siccome non eravamo abituati ad andare scalzi come tanti altri, mia mamma risparmiando sul cibo riuscì a comprare un paio di scarpe, che io e mia sorella metteva-io a turno. Erano dei mocassini adattabili a tutte le stagioni. Io avevo una misura più piccola rispetto a mia sorella, e quando toccava a me uscire imbottivo l'interno con qualche pezza. Dovevo fare un grande sforzo a camminare, ma l'orgoglio mi portava a stare diritta senza badare al fastidio.
Poi, crescendo insieme al corpo anche i piedi, fu mia sorella ad avere difficoltà a calzare quei mocassini perché erano diventati piccoli per lei mentre per me erano giusti. Allora mia mamma, non potendone comprare altri, li fece spuntare dal calzolaio, così continuammo a metterli a turno con le dita che fuoriuscivano.
Vittoria Butera