I
giochi erano semplici e sempre collettivi,
non si poteva giocare individualmente come avviene oggi con i
computer o le playstation, solo qualche anziano seduto sui gradini
davanti casa faceva il solitario con le carte. L’agonismo, sì,
quello esisteva: non c’è gioco che non contempli sconfitta o
vittoria, ma non c’era un premio finale, se non quello
rappresentato dalla soddisfazione di poter dire allo sconfitto “io
sono meglio di te”, e magari a distanza di qualche ora o di qualche
giorno le parti si ribaltavano, e così tutti potevano assaporare sia
la gioia della vittoria che l’amarezza della sconfitta. Grande
metafora della vita, forgiatura verso l’età adulta.
Bastava
un bastone e costruivamo una mazza, degli stracci e dello spago per
fare una palla, che ci costringeva a giocare palla a terra, il gioco
preferito dai grandi allenatori del calcio moderno. C’era il gioco
dei bottoni: qualcuno rimaneva senza chiusure ai pantaloni o senza
bottoni alla giacca o alla camicia, era inevitabile che tornato a
casa il perdente dovesse sorbirsi una severa ramanzina oltre la
rituale sonora sculacciata, che finiva con l’inevitabile promessa
che non lo avremmo più fatto... naturalmente fino alla prossima
volta, cioè dopo qualche giorno.
dal libro di E. Butera: a domani
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