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150 anni d’immigrazione italiana in Svizzera
29. SOFFERENZE, ASSOCIAZIONI «DOLCE VITA»
Le condizioni di vita iniziali della prima generazione di immigrati degli anni Sessanta e Settanta devono essere state generalmente dure da sopportare. Sono rare le testimonianze di italiani giunti in Svizzera in quegli anni, che si sono sentiti fin dal primo giorno accettati, rispettati e stimati sia nel posto di lavoro che nella vita sociale: sono eccezioni che confermano la regola. Ben più numerose sono infatti le testimonianze scritte e orali di coloro che hanno dovuto sopravvivere per mesi e persino anni in situazioni di estremo disagio, soprattutto psicologico. Eppure, in una sorta di retrospettiva, mi sembra incontestabile che proprio col loro modo di vivere e di pensare gli immigrati italiani della prima generazione hanno contribuito a trasformare positivamente la società svizzera.
Anzitutto le sofferenze
Non c’è dubbio che l’ondata di immigrati meridionali degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso ha trovato nella Svizzera una terra ostile alla realizzazione dei loro sogni. Gli ostacoli da superare per il dispiegamento di una vita normale erano soprattutto il senso di rifiuto dello straniero da parte di ampi strati della popolazione svizzera, la pratica di una politica immigratoria finalizzata allo sviluppo dell’economia, condizioni di lavoro vicine allo sfruttamento, la tristezza di una vita lontana dagli affetti familiari e tutta una serie di privazioni materiali e morali. Altri ostacoli se li portavano appresso gli stessi immigrati, che giungevano in massa in questo Paese senza conoscerne la storia, la geografia, la lingua, la cultura, le regole di vita, le usanze, senza un adeguato bagaglio culturale, senza una specifica preparazione professionale e senza una vera assistenza sul posto.
A prescindere dalle responsabilità dirette e indirette (pur essendo innegabili e gravi soprattutto quelle della classe politica italiana e svizzera e dei sindacati), le sofferenze morali più che fisiche di moltissimi immigrati sono un fatto certo.
La prima generazione, soprattutto quella degli anni ’60 e ’70, è quella che ha maggiormente sofferto da una parte dello sradicamento culturale e dall’altra dell’isolamento, della solitudine, della frustrazione e persino della malattia nelle sue forme tipiche della depressione, dell’abbandono e della mania di persecuzione. Del resto, la distanza tra le condizioni economiche e socioculturali del Mezzogiorno d’Italia del dopoguerra e la nuova società di accoglienza, economicamente, socialmente e culturalmente completamente diversa, non poteva che essere traumatizzante.
Una testimonianza emblematica
Trovo emblematica, fra le innumerevoli che si potrebbero citare, la testimonianza di una immigrata veneta giunta in Svizzera agli inizi degli anni ’60:
«Libertà! Certo anche la libertà ha il suo prezzo. Le giornate a lavorare passano veloci. Imparavo in fretta e bene, però le serate erano lunghe, lunghissime. Chiusa nella pure bella cameretta, con naturalmente l’ordine di non fare entrare estranei, mi divertivo a riordinare, a pulire e lavare a mano nel lavandino le mie cosette. Loro [i padroni di casa] avevano 4 figlie ma non mi hanno mai integrato al contrario in poche parole non mi volevano, cosicché ero sempre sola. […] Il più brutto da sopportare era il silenzio, e avevo nostalgia di casa mia. La mia fantasia viaggiava sempre a Vicenza, le serata passate in famiglia con degli alti e bassi, ma sempre tanto rumorose. Ora ero lì, senza famiglia, senza amici e non conoscevo nessuno. I miei colleghi e colleghe di lavoro erano tutti sposati o fidanzati e alla sera come pure alla domenica avevano le loro occupazioni. Io non avevo nessuno.[…].
Finalmente in fabbrica assunsero una giovane ragazza di nome Orietta, era più giovane di tre anni. Era molto carina e anche tanto comunicativa. Abbiamo fatto presto amicizia […]. Abitava a un chilometro da casa mia e tutte le sere facevamo la strada a piedi e si rientrava assieme raccontandoci la nostra vita. Finalmente un’amica! Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio si andava fuori assieme, a bere un caffè a Neuchâtel nei posti che all’epoca erano frequentati da quasi soli italiani. Ci si trovava fra noi, gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro. Avevamo i nostri locali. Quando si cercava sia una camera o un appartamento in tutti i giornali locali scrivevano: “Appartamento libero, Italiani esclusi!”. Era una sofferenza fisica e morale. Non si capiva, eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati. […].Poveri italiani, eravamo sfruttati e moralmente maltrattati. Gli anni 60-70 per noi tutti è stato un calvario».
Se non proprio per tutti, certamente quel periodo è stato caratterizzato per molti, soprattutto donne, da grandi privazioni e sofferenze, che solo col tempo si sono attenuate, senza però scomparire del tutto dalla memoria. «Come siamo riusciti a resistere a tanti disagi e umiliazioni non lo capirò mai», dice un emigrato calabrese nel romanzo di Saverio Strati «Noi Lazzaroni» (1972).
L’espressione di quell’immigrato calabrese, che evoca in primo luogo la condizione migratoria penosa di tanti immigrati, afferma anche una bella verità, perché lascia intendere che gran parte di quelle sofferenze sono state comunque superate. Sta di fatto che, in base alle testimonianze disponibili, la maggioranza delle persone che hanno vissuto quel periodo difficile, sia che risiedano ancora in Svizzera, sia che siano rientrate, non ha rimpianti. Il bilancio è dunque positivo e a confermarlo, come si vedrà appresso, sono soprattutto gli stessi svizzeri.
Il contributo dell’associazionismo
Quanti non hanno conosciuto da vicino esperienze migratorie del tipo appena evocato si chiederanno legittimamente come abbiano fatto centinaia di migliaia di immigrati a superare le difficoltà dovute alla loro condizione migratoria. La risposta non può essere univoca perché ciascun immigrato e ciascuna immigrata ha trovato la propria soluzione. C’è però una risposta che vale certamente per molti, se non per tutti: attraverso l’associazionismo.
Senza voler disquisire in questo contesto della storia, delle finalità, delle caratteristiche, dei meriti ed eventualmente dei demeriti anche solo delle principali associazioni italiane in questo Paese, qualunque storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non può trascurare questo capitolo fondamentale. Ricordo solo che soprattutto negli anni Sessanta e Settanta si sono sviluppate all’interno delle grandi comunità italiane innumerevoli associazioni, vecchie e nuove a carattere ricreativo, sportivo, religioso, politico e culturale.
Il fatto che fossero molte e variegate sta a dimostrare che i bisogni erano tanti e diffusi, ma soprattutto che era grande tra gli immigrati italiani il bisogno di superare il disagio dell’isolamento, dell’incomunicabilità, dell’impotenza, della percezione di sentimenti ostili tra la popolazione svizzera e dell’inadeguatezza delle istituzioni ufficiali italiane a risolvere i loro problemi.
Nelle associazioni si sviluppò una sorta di sentimento di appartenenza a una comunità, si sviluppò il dialogo, l’orgoglio di appartenere a una classe sociale non parassitaria ma contribuente e determinante, ancorché priva dei diritti politici. L’associazione era anche il luogo dei dibattiti, dell’apertura al mondo, dell’ascolto e dell’incontro di figure prestigiose della politica, del sindacalismo, del giornalismo, dell’arte. Alcune associazioni ospitarono ambasciatori, ministri, capi di Stato, vescovi, scrittori, premi Nobel.
Senza le associazioni, oggi la collettività italiana presente in Svizzera sarebbe certamente diversa. L’associazionismo ha infatti rappresentato, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, molto di più di quel che può rappresentare oggi qualunque forma di organizzazione professionale o del tempo libero. L’associazione costituiva per moltissimi italiani l’ambiente vitale in cui si poteva «respirare» l’aria nostrana, si potevano «mangiare» prodotti italiani, si poteva «parlare» la nostra lingua, si potevano stringere amicizie, in cui si poteva essere sé stessi.
Le feste e la «dolce vita»
Più in generale, tuttavia, l’associazione ha costituito una sorta di luogo sicuro in cui si riguadagnava tutta la libertà persa o limitata dalla vita lavorativa e dalle regole della convivenza sociale. Era la libertà di esprimersi come si voleva, di criticare senza correre alcun pericolo, di alzare la voce senza essere richiamati all’ordine, di giocare alla morra senza essere presi in giro, di divertirsi, di organizzare le feste «italiane». Alcune di queste ottennero un successo incredibile, come il Festival della canzone italiana a Zurigo o certe rappresentazioni teatrali a Berna. Per altre manifestazioni, perché le associazioni non disposero mai di ampi locali, ad eccezione della Casa d’Italia di Zurigo, si affittavano sale di Kursaal, Centro Congressi o di grandi ristoranti.
A distanza ormai di decenni, anche molti svizzeri si rendono conto delle ingiustificate sofferenze procurate agli italiani, ma anche del prezioso contributo d’italianità ch’essi hanno dato all’intera società e che la settimana scorsa un grande quotidiano zurighese ha sintetizzato in due parole: «dolce vita». Del resto, chi ha la possibilità di confrontare gli stili di vita di oggi e di 40-50 anni fa non può non ammettere che gli italiani hanno introdotto in questo Paese non solo la pizza, l’espresso, il cappuccino e la cucina mediterranea, ma nuovi modi di pensare, sperare e sognare, un tipo socialità un po’ chiassosa ma sincera prima quasi inesistente, il passeggio domenicale sfoggiando i vestiti della festa, il bel canto, la passione per le belle auto, la volontà di non arrendersi mai, l’ottimismo, la certezza, più che la speranza, che dopo ogni tempesta torna il sereno, come dice la canzone napoletana ‘O sole mio (n'aria serena doppo na tempesta!) e il sole torna a risplendere (che bella cosa na jurnata ‘e sole) perché ogni giorno «’o sole mio / sta’nfronte a te».
Giovanni Longu
Berna, 15.11.2017
1 commento:
io ti capisco molto ? milioni di noi abbiamo sofferto la solitudiene !
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