sabato 27 ottobre 2012

un racconto di Daniel Isabella

Giò  e il carrello della spesa 


La mattina del ventotto giugno del 1998, il robusto dodicenne Giò vide vicino ad un cassonetto dell'immondizia, in un angolo buio di una piccola strada della città ai piedi delle colline, un carrello della spesa. Era uno di quelli che si trovavano nei grandi centri commerciali di periferia, con quattro piccole ruote girevoli, la resistente gabbia di metallo, il piccolo sedile per i bambini.



Nella barra dal quale solitamente lo si spinge in avanti e indietro, la scritta del supermercato era illeggibile; inoltre mancava del tutto la solita catena che legava un carrello ad un altro e dove si inseriva la moneta da cinquecento lire. Era forse il modello di carrello da supermercato più grande in circolazione. Il ragazzo lo prese e lo portò via, spingendolo a fatica, perché le ruote era un po' bloccate. 
Giò abitava in una piccola villa a due piani nel punto più alto della collina; suo padre era il guardiano del parco dove 'la statua del faro' dominava il paesaggio cittadino. L'unico modo per arrivare a casa era quello di prendere il pullman, ma Giò non aveva intenzione di separarsi dal suo nuovo amico (e poi l'autista del pullman non l'avrebbe mai fatto salire con quel grosso carrello), così lo spinse in salita per tutto il giorno, pensando che era l'unica cosa da fare e che a nulla sarebbero valse le urla del padre : “Che fai co' sto coso? L'hai rubato? Riportalo subito dov'era!” Anche la madre, maestra a scuola e a casa, lo avrebbe sgridato: “Riportalo indietro, nell'immondizia, oppure donalo a qualche negozio nel paese vicino!” Poco oltre settecento metri, era questa l'altitudine della sua collina, e Giò, che aveva le gambe corte e non praticava nessuno sport, giunse a casa con tanta fatica, uno sforzo fisico per lui impensabile; prese pure le strade più complicate, ma meno frequentate dalle automobili. Nel tardo pomeriggio entrò nel minuscolo giardino di casa e nascose il carrello nel retro, dietro un cespuglio, di fronte alla finestra della sua stanzetta, che si trovava al piano terra. A tavola, durante la cena, la luce del sole di un colore arancio fortissimo faticava ad entrare; la madre guardava il telegiornale, il padre, che aveva lavorato tutto il giorno nel parco, si sedette e disse al figlio: “Domani butti via quel coso” ma il ragazzo non rispose. Il mattino seguente Giò prese il carrello con l'intenzione di nasconderlo in un altro luogo. Aveva deciso di pulire e sgrassare le ruote con dell'olio raffinato, in modo da renderle più scorrevoli. Nel retro di un ristorante vicino casa lavorò tutto il giorno. Il proprietario e i camerieri lo conoscevano di vista e non gli chiesero nemmeno cosa diavolo stesse facendo con quel carrello: Giò per tutti era il figlio cicciotto del guardiaparco. Terminato il lavoro, ci si mise dentro, dopo che per un'ora l'aveva fissato, quasi incantato. Infine ci si addormentò. Al risveglio l'aria era più fresca, il vento muoveva i rami di una grande quercia e lui e il carrello rimasero immobili lì sotto: doveva prendere una decisione, la cena si avvicinava, doveva trovare al nuovo amico un nascondiglio oppure chiedere ai suoi genitori di tenerlo ancora per un po'. Ma gli mancava il coraggio. E poi non sapeva proprio come avrebbe potuto abbozzare un discorso; il giovane non era certo un chiacchierone, spesso sbagliava i verbi, come a scuola, l'ultimo giorno, quando tutta la classe rise durante una sua interrogazione in grammatica italiana. Chissenefrega della scuola e della lingua italiana, pensò, ora è estate, per me e per il carrello della spesa. Era quasi ora di cena, doveva tornare a casa e non ne aveva voglia. Durante tutto il caldo pomeriggio aveva pensato al luogo del possibile rifugio, magari provvisorio, e spingendolo a mano per la strada principale, trovò in una traversa, una strada in discesa, tutta dritta, ben asfaltata, molto ripida, lunga una cinquantina di metri o più, che portava unicamente al sontuoso cancello di una grande villa abbandonata. Di fronte a questo cancello arrugginito, c'erano allineati quattro bidoni dell'immondizia in disuso. Più o meno al centro di questi, appoggiati, due materassi da letto posti in orizzontale. Giò si gettò dentro il carrello e senza esitare si lanciò giù. Fu una corsa in discesa che durò qualche decina di secondi. Il carrello prese davvero velocità solo negli ultimi venti metri, dritto, senza sbandare e si schiantò frontalmente contro quei materassi abbandonati. Due piccioni grigi, appoggiati sui bidoni, volarono via. Giò teneva le mani strette ai due lati del carrello. Aveva il sedere leggermente sollevato. Respirava affannosamente. Il carrello non si era nemmeno ammaccato, niente, e lui lo stesso, nessun colpo subito, nessun graffio. Aveva compiuto una piccola impresa. Non aveva preso né sassi né buche, anche se erano presenti in più punti della strada. Il vento, in quel momento, era assente; le ruote le aveva preparate bene, rendendole molto scorrevoli. Aveva mantenuto la posizione giusta e non aveva mosso di un solo millimetro il suo corpaccione che occupava gusto la metà dello spazio dentro il carrello: ma ogni tentativo di spiegazione logica perdeva significato, poiché il ragazzino aveva agito d'istinto, ed era stato semplicemente molto fortunato. Giò appoggiò la testa contro la parte posteriore e fece un lungo respiro. Si alzò anche un forte vento. Portava una maglietta color rosso, ora tutta bagnata dal sudore. Doveva ritornare a casa, ma non ne aveva voglia. E poi il carrello sarebbe rimasto lì, da solo, di nuovo tra i rifiuti. Non aveva paura che qualcuno glielo portassero via, questo no, anche perché era una zona abbandonata (un vecchio cartello segnalava la strada come 'privata'). Nemmeno le giovani coppiette in auto la usavano per nascondersi: troppo ripida la strada, la risalita sarebbe stata più faticosa di un amplesso. A cena il ragazzo non disse nulla. La televisione, ad alto volume, trasmetteva vecchi spezzoni di partite di calcio. Quella sera nessuno dei tre aprì bocca, ma era una cosa abbastanza normale. Il padre a quell'ora sempre stanco, beveva un po' di vino rosso; la madre sbucciava con cura la terza o la quarta mela. Poi andarono tutti a dormire, presto. Giò non vedeva l'ora di tornare dal suo carrello e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Ripensò alla discesa spericolata e a quanto lo avesse eccitato. Non aveva mai provato, seppur nella sua breve esistenza, un'emozione così forte. Per la prima volta aveva trovato una cosa che lo appassionasse veramente al punto tale da togliergli addirittura il sonno. A differenza dei suoi coetanei di dodici-tredici anni, non gli interessava il calcio e lo sport in generale. Rispetto a loro ascoltava altra musica, come il rock 'n' roll, poiché uno zio, che viveva a New York e diceva di avere due Hotel, gli aveva regalato delle cassette quando era venuto a trovarli in collina (per l'occasione affittò una limousine). Inoltre gli aveva lasciato una raccolta di canzoni presenti nella colonna sonora del film American Graffiti. Giò seguiva anche il wrestling, ma nella sua stanza non aveva poster né di cantanti né di lottatori e comunque la madre non gli avrebbe permesso di insozzare la preziosa tappezzeria azzurra con quella cartaccia. I film li vedeva in televisione, quelli che capitavano: preferiva i film comici e quelli d'avventura, ma sentiva di non avere una fissa per un attore o un film in particolare. Spontaneamente aveva letto solo qualcosa di Verne e un libro di Stevenson, gli autori preferiti dal padre, ma Giò li leggeva a fatica e raramente ne finiva uno. Anche alla classica domanda: “allora, da grande che lavoro vuoi fare?” fatta dalla maestra in quinta elementare, lui fu l'unico a non sapere cosa rispondere (tutta la classe rise, compresa la giovane maestra, che aggiunse, “magari farai il custode di quel bellissimo parco dove c'è la statua con il faro no?”, che poi sarebbe stato più corretto dire 'guardiaparco'..) Stessa cosa per i primi innamoramenti. Non c'era una ragazzina che gli piacesse più di un'altra e per nessuna aveva ancora sofferto. I suoi compagni di prima media cominciavano a fidanzarsi, magari per qualche settimana, con le varie Gaia e Lorella o Roberta e in quel periodo erano capaci di parlare solo di loro, ma lui era diverso: per esempio durante una lezione in classe, mentre guardava fuori dalla finestra, immaginava di baciarne almeno dieci o venti alla volta, e così, a fine mattinata era un po' come se si fosse fatto mezza scuola, comprese Gaia, Lorella e Roberta. Una volta una ragazzina di terza media di nome Evaluna l'aveva baciato per davvero, e sulla bocca, (senza però usare la lingua), durante il classico gioco della bottiglia. Era stata l'unica a dirgli di sì e dopo il fatto, quasi a giustificarsi dinanzi alle sue amiche incredule e un po' schifate, lei disse che certamente Giò aveva un fisico orribilino (usò proprio questa parola la bimba) ed era anche un po' cicciottello, con una testa simile ad una palla da bowling, il collo quasi attaccato alle spalle, ma a suo vantaggio, e forse questo annullava tutte le cose negative, aveva gli occhi verdi più incantevoli che lei avesse mai visto in circa quattordici anni di vita. (Va aggiunto ancora, ma su questo Evaluna non si pronunciò, che Giò era uno dei maschi più bassi della scuola). Il mattino seguente tornò in quella via ripida, dal suo carrello, portandosi con sé, dentro lo zainetto, due panini al formaggio e prosciutto, una bottiglia da un litro di acqua frizzante, il walkman con dentro una cassetta con canzoni registrate dalla radio, le hit del momento, come un pezzo dei Fastball dal titolo The way, ma anche qualche brano di Jerry Lee Lewis, un libro di grammatica inglese (per tenere buona la madre), una catena di quelle che si usano per bloccare le biciclette, con un grande lucchetto: alla fine della giornata lo avrebbe legato al vecchio cancello della villa abbandonata. Spostò il carrello all'ombra di un pino, l'unico albero presente, per il resto, intorno a sé, aveva solo sterpaglia secca, e si mise dentro ad oziare. Le cicale erano rumorose, ma a Giò piacevano perché gli sembravano un'orchestra. La strada era un luogo perfetto, un rifugio dal mondo, il suo mondo dove nessuno lo avrebbe mai trovato, genitori compresi (di giorno, comunque, lo lasciavano libero, almeno d'estate, purché dimostrasse alla madre, la domenica sera, di aver fatto parte dei compiti.) Verso le due, dopo aver mangiato uno dei due panini, scese dal carrello, lo spinse una decina di metri su; poi lo posizionò verso i bidoni dell'immondizia e i materassi. D'impeto si gettò dentro, scavalcandolo, e il carrello cominciò la sua discesa, ma solo per pochi secondi, poiché il culo del carrello finì tutto in avanti, le ruote posteriori si bloccarono, si rovesciò e finì in terra. Giò non si fece nulla. Fortunatamente il percorso era stato troppo breve. Lo rimise su e questa volta vi entrò dalla parte posteriore, che si sollevava, e mettendosi lui a pancia in giù, con la testa in avanti quasi a sfiorare la gabbia anteriore, con le mani contro di essa, dopo aver nuovamente indirizzato il carrello al punto giusto, lo tenne fermo con i suoi piedi; infine si lasciò andare. Finì contro i materassi a scarsa velocità; si trattava di pochi metri di discesa, forse nemmeno cinque e poi una decina di metri in pianura fino ai quei bidoni davanti al cancello. E così trascorse tutta la sua estate, in quella stradina di collina abbandonata, con un solo albero come riparo dal sole, a fare discese pazze con il suo carrello. Aveva ripulito la strada dai sassi, anche quelli più piccoli, con una scopa. Fortunatamente le buche, tutte minuscole, erano presenti solo ai bordi della strada. Dalla cantina Giò aveva preso altri due vecchi materassi, uno messo al centro e tre dietro, in orizzontale, appoggiati ai bidoni dell'immondizia, come a formare un muro prezioso, lungo un paio di metri. Quando decideva di partire dalla cima, doveva fare attenzione che sulla strada principale non passasse nessuna automobile. Chissà cosa avrebbero pensato, forse ad un suicida, un folle da fermare. Sarebbero intervenute le forze dell'ordine, i famigliari, i servizi sociali, che lo avrebbe svegliato dal suo sogno. Per tutto luglio e agosto, Giò riportò piccole ferite, soprattutto graffi alle braccia e alle gambe, ma era anche bravo a fregarli, ad inventarsi scuse: dichiarava ai suoi di trascorrere le giornate nel parco e che qualche volta, prendendo sentieri improbabili, cadeva. Il padre diceva di non vederlo mai, (effettivamente il luogo era vasto, con centinaia di sentieri che forse neanche l'uomo poteva conoscere). Giò cadde alcune volte con il carrello, ma non mise mai un casco o cose simili, per principio: lui voleva scendere senza finzioni, vestito come se dovesse fare una semplice passeggiata, con scarpe da ginnastica, pantaloncini, maglietta. Trascorreva le ore più calde della giornata dentro il carrello, sotto l'ombra mutevole del pino, a fare i compiti, tanto per tenere buona la madre. Nelle giornate di fine agosto provò alcune discese, dopo forti piogge e andò tutto bene. La musica l'ascoltava qualche volta, tanto per caricarsi, però durante la discesa doveva esserci silenzio. A volte capitava che osservasse la strada per delle ore; la studiava con cura. Aspettava il momento giusto, magari aspettava che il vento cessasse, soprattutto se era forte e di traverso. Quando il cielo era sereno andava meglio, ma una nuvola che passava davanti al sole o si fermava poteva essere un autentico rischio per la sua visibilità: un cambiamento improvviso poteva distrarlo, privandolo della giusta posizione e farlo cadere. In poco tempo era diventato più accorto e concentrato. Non era più quello della prima discesa. Non aveva mai paura. Quando entrava nel carrello e si buttava per quella discesa, si sentiva sicuro e felice come non lo era mai stato nella sua breve vita; il senso delle sue giornate finiva lì, quando il sole tramontava. “Peccato che non facciamo mai le vacanze estive, quest'anno te le saresti meritate davvero!” disse la madre una sera, contenta perché il figlio aveva finito tutti i compiti a pochi giorni dall'inizio della scuola. Una sola volta erano andati in vacanza, quando Giò era ancora troppo piccolo per ricordare. Trascorsero quasi un'intera estate in una piccola frazione di mare vicino Tropea, ospiti di una vecchia zia del padre (invece la madre di Giò era ligure). Ma la donna non poteva certo sapere che il ragazzo stava già viaggiando, a modo suo, tutti i giorni, ed era felice così, forse almeno quanto i suoi compagni in vacanza, ad Alassio, a Londra o in Australia. L'arrivo di settembre e della scuola furono per Giò un vero fulmine a ciel sereno. Lui non era più lo stesso e niente, dopo quell'estate, avrebbe avuto senso per davvero se non quelle pazze discese in cui si riempiva i polmoni di un'abbondante provvista d'aria. Ma non sarebbe stata la fredda temperatura, il clima ostile, l'inverno e la neve, le giornate brevi, con poca luce, a fermare le sue gioie con il carrello, ma le ore perdute nelle aule scolastiche, il ritorno a casa a pranzo, il pomeriggio, la cena, l'inutile sonno durante la notte. Gli sarebbero rimasti o il sabato o la domenica, uno di quei due giorni a scelta, poiché uno avrebbe dovuto dedicarlo interamente ai compiti: e così scelse il sabato per questo, che considerava una perdita di tempo, ma che svolgeva sempre con maggiore impegno al fine di non creare sospetti in famiglia, mentre la domenica, che da sempre detestava (senza un particolare motivo), l'avrebbe dedicata ai suoi viaggi, alle sue spericolate discese. Il luogo era rimasto lo stesso, quella strada isolata dal mondo, a pochi minuti da casa sua e ogni volta che si buttava giù era come se fosse la prima volta, un evento al quale non rinunciava nemmeno con la febbre. Poi, con la neve, era tutta una cosa a parte. D'inverno nevicò abbastanza da coprire la sua strada parecchi centimetri. La prima volta scese a fatica perché, seppure molle, la neve finiva per superare abbondantemente le ruote e terminare dentro la gabbia del carrello, bloccandolo fin da subito. Tuttavia, una volta segnato il tracciato, perfettamente dritto, il carrello scendeva adagio e giungeva alla fine della sua consueta corsa. In alcune circostanze evitò di venire giù quando l'asfalto era ghiacciato, soprattutto se lo era in alcuni tratti: Giò non era così folle, o meglio, se fosse caduto malamente non avrebbe potuto più scendere durante le sue domeniche e nei mesi estivi. Con un braccio o una gamba fratturata o alla peggio un colpo in testa e chissà cos'altro, si sarebbe concluso il suo sogno. Ma un giorno l'avrebbe fatto, lo promise a se stesso e al carrello. Gli mancava solamente l'esperienza, doveva aspettare, con pazienza, per questo e per altro di più ambizioso. A proposito di questa sua insolita attività, non ne aveva parlato ancora con nessuno. A scuola non aveva amici, ma nemmeno nemici, gente che lo infastidisse. Lui si faceva i fatti suoi, viveva nel suo piccolo mondo silenzioso. Durante l'intervallo rimaneva con i suoi compagni nei corridoi, più che altro li ascoltava, rideva alle loro battute. Qualche volta quelli della sua classe lo invitavano alle feste il sabato pomeriggio, nelle loro case lussuose, spesso situate ai piedi della collina, a due passi dal centro storico, ma lui più di una volta aveva rifiutato. Durante il sabato doveva studiare, in modo da non avere debiti per la sua domenica 'santa'. Solo verso maggio rivelò il suo segreto a colui che reputava un buon conoscente, Richi detto 'il capellone', un ragazzo che fiatava poco come Giò, figlio di impiegati comunali, fissato con i Metallica. Quando parlava si capiva poco o niente, andava troppo veloce. A tredici anni era lì che citava i filosofi, anzi un filosofo: Friedrich Nietzsche. Giò lo invitò ad una sua esibizione in una domenica già caldissima e abbastanza ventosa. Lo accompagnò in fondo alla stradina, in un lato, chiedendogli di chiudere gli occhi per qualche minuto fino ad un suo segnale vocale. Lui annuì, si accese una sigaretta e chiuse gli occhi. Giò slegò il suo carrello, che teneva sempre attaccato al cancello con quella catena per le biciclette, risalì la via, si mise dentro, facendo attenzione alle auto dietro di lui, quindi urlò: “Apri!” e scese a gran velocità, anche se il vento era un poco di traverso, ma finì contro i materassi e tutto andò a meraviglia. Richi rimase di pietra, con la sigaretta in bocca che aveva smesso di aspirare. Non disse nulla per qualche minuto, borbottò qualcosa, gesticolando, forse erano delle citazioni filosofiche. Poi lo abbracciò forte. Il 'capellone', come detto, era uno che stava per i fatti suoi, con quel faccino da faina, nascosto da lunghi capelli neri. Il giorno seguente però, alla fine della mattinata, tutti i ragazzi della scuola evidentemente capirono le parole di Richi e così vennero a conoscenza dell'impresa di Giò e del suo carrello. La notizia era stata diffusa durante l'intervallo e così all'uscita, soprattutto quelli dell'ultimo anno, gli chiesero spiegazioni, e Giò, imbarazzato, li invitò ad assistere ad una sua discesa per la domenica a venire. Nessuna ragazzina gli disse qualcosa, ma si era accorto che una delle più carine, quella con le guance arrossate e i capelli biondi lunghi fin quasi alle gambe, Rosa o Chiara, Giò non ricordava mai il nome, che nelle pause o all'uscita girava spesso a braccetto con due ragazze con gli occhiali, quasi fossero una sola cosa, si era avvicinata per un attimo, lo aveva fissato negli occhi, ed era scoppiata a ridere. Per Giò fu un giorno particolare. La domenica pomeriggio l'elegante ragazza bionda non venne, ma la solita stradina si riempì di giovanissimi curiosi, più maschi che femmine. Molti erano arrivati in scooter, in bicicletta o accompagnati nelle vicinanze in auto dai genitori, con la scusa di andare al parco a vedere l'alta statua con il faro, il panorama, le montagne sullo sfondo con le cime ancora innevate, la città sotto. Molti si erano accalcati in fondo alla strada, a ridosso del cancello della villa abbandonata. Qualcuno si era messo ai bordi della strada come gli spettatori che assistono ad una gara di sci alpino o di rally. C'era anche Anna, la ragazza detta 'la rivoluzionaria', una tizia con i capelli rasati, molti orecchini, i grandi occhi azzurri, la quale amava spesso ripetere che un giorno avrebbe fatto carne alla brace di quella brutta gente borghese, (ovvero avrebbe bruciato tutte le case in collina, compresa la grande villa in cui lei viveva con i suoi e la tata). Richi aveva organizzato l'evento: la star e il suo carrello sarebbero dovuti apparire solo all'ultimo, dal principio della ripida stradina. Invece si erano nascosti dentro la villa abbandonata che andava a pezzi ed era quasi più un rischio rimanere lì dentro per troppo tempo, che fare una discesa ad occhi chiusi. Giò era molto preoccupato e non per la folla e nemmeno per le condizioni atmosferiche. C'era un gran sole e non c'era vento. Anche fisicamente si sentiva bene, non aveva alcun dolore, nemmeno quel solito leggero male alla testa. Lui scendeva per se stesso, se poi gli altri si divertivano a vederlo tanto meglio per loro, pensò. E se fosse caduto, pazienza! La sera prima, nascosto con la testa sotto il cuscino, aveva pianto. Sapeva che dopo quella discesa le voci dei figli sarebbero giunte alle orecchie dei genitori, comprese quelle della sua famiglia e che questi mai lo avrebbero perdonato: gli avrebbero strappato l'unica cosa che lo rendeva per davvero felice. Sognò tutto, la crisi isterica della madre, le botte del padre, il carrello fatto a pezzi, le ruote diventate magiche grazie alle sue continue 'cure', la gabbia presa a calci, sfondata, tutto finito dentro un bidone dell'immondizia e addio...Non ci sarebbe più stata un'altra estate come quella passata e le sue belle domeniche trascorse durante le altre stagioni...addio... Eppure aveva ancora tante cose da fare, sapeva che con il tempo avrebbe imparato a dominare il suo carrello e a scendere anche con il ghiaccio, con una tempesta di vento o in controluce, magari ad occhi chiusi. E questo era niente. C'erano altre strade simili, sparse per la collina. Ma il suo più grande desiderio era quello di dedicarsi ad ogni strada in discesa, facendo tutte le curve, frenare al momento giusto, partendo dalla cima della collina fino a giungere in città, in pianura, senza mai cadere. Sarebbe riuscito a fare questo un giorno, senza modificare il suo carrello con artifici tecnici, freni, volanti o altre invenzioni? E da grande, a vent'anni, sarebbe riuscito a starci dentro senza sentirsi troppo stretto? Dentro la villa pensò a tutto questo. Poi uscirono, lui e il carrello, dal cancello arrugginito che si apriva a stento. Tutti rimasero in silenzio. Salirono come sempre, Giò dietro a spingerlo, per quella salita, fino al principio. Vi entrò da dietro. Si mise con la pancia in giù. Poi lasciò andare i piedi che gli uscivano fuori dal carrello, staccandoli dall'asfalto. Prese posizione, si mise quasi seduto, con le braccia larghe in avanti, le mani che stringevano i bordi, il sedere leggermente alzato. Tutto il corpo era un poco in avanti e gli occhi puntati ai soliti materassi. Un incantevole viaggio durato quei rari secondi, sempre troppo pochi e la discesa si concluse contro i materassi. Ci fu un boato. I ragazzi urlarono, applaudirono come se fosse una rock star o un grande atleta. Lo circondarono, mentre Giò era rimasto dentro il carrello a pensare dove avrebbe potuto nasconderlo nel momento stesso in cui sarebbe finita quella strana festa. L'ultima discesa un cazzo, pensò: mio caro amico carrello, non so come, ma un giorno faremo tutte le discese del mondo. Fu questo il suo secondo pensiero, forse eccitato per l'affetto della folla entusiasta che gridava sempre più forte per quella loro stravagante impresa.

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