Il Fiume
‘U jume d’i Cujjienti
Quand’ero piccolo e frequentavo le elementari ritenevo di abitare in un paese fortunato perché, come ci avevo detto il maestro, i fiumi fanno la ricchezza dei paesi. E il mio ne aveva uno, così come Vienna, Roma, Parigi, Londra. Non mi era venuto minimamente in dubbio che tra fiume e fiume ci potessero essere delle differenze. Allora per me, un fiume era un fiume; punto e basta. Poi visti il Po, il Tamigi, la Senna, il Danubio, il Nilo etc, fatte le debite proporzioni, ho capito che il nostro, di fiume aveva solo il nome e che, pur utile, la ricchezza al paese non l’avrebbe mai portata. Fiume, certo, lo è per avere un suo letto, ma l’acqua, benefica o distruttrice che sia, quasi come un gioco delle tre carte appare e scompare all’improvviso secondo le stagioni o gli umori del tempo. In effetti il fiume, come il mitico Giano, ha due volti: calmo e quasi invisibile d’estate; rumoroso e ingombrante d’inverno. Uno di quei fiumi torrentizi, tipici del sud d’Italia, che, d’inverno, gonfiati da violenti temporali, si riversano a valle con furia travolgente, ora ingoiando, ora rigettando tutto quanto gli si para contro; d’estate invece, per tante vie traverse si perdono in mille rigagnoli tortuosi.
Il “ mio” fiume prende la sua forma, quando l’acqua c’è, nel fondovalle, all’inizio del paese, dove si riversano e confluiscono tutti i torrenti provenienti dalla montagna. Per noi, gli abitanti del luogo, non ha un nome identificativo ma, così come gli egiziani fanno per il Nilo, lo chiamiamo unicamente e solamente “ ’U jume “.
L’ho conosciuto da piccolo e poi l’ho amato e temuto, portandogli rispetto come si fa con un essere capriccioso, facile ai salti d’umore.
L’ho conosciuto quando l’acqua era ancora chiara e si vedevano i girini nuotarvi dentro. Restavo per ore ad osservarli, incuriosito e attratto da queste piccolissime forme di vita. Mi divertivo a prenderli e, siccome schizzavano tra le mani, ritenevo un successo riuscire a trattenerne uno o due. Nei periodi di secca attraversavo il fiume, andando da una riva all’altra. Altre volte mi piaceva sdraiarmi accanto e sentire il suo passaggio come un impercettibile, dolce mormorio; come volesse dirmi: ecco, ci sono; mi piaceva anche tanto camminare e saltare sui massi che l’acqua, col tempo, aveva levigato ed appuntito. Ci andavo anche d’estate con i miei amici a fare il bagno; in un luogo dove l’acqua s’ingorgava. Lo chiamavano “ ‘u vuddru”. Si toccava il fondo, ma c’era chi “nuotava “ riuscendo a dare due o tre bracciate e chi dall’alto (si fa per dire) si tuffava. Io che non sapevo nuotare, li guardavo con grande ammirazione e li invidiavo. Le donne, al fiume, vi venivano per fare “ ‘a vucata”. Pioppeti e canneti disseminati intorno erano i posti dove nei caldi pomeriggi estivi arrivava spesso la gente a rilassarsi e dove qualche ragazzo veniva a spiare le lavandaie con la speranza di vedere un po’ di gambe nude e qualche seno svolazzante.
Già d’autunno, ai primi temporali, il fiume si svegliava dal letargo estivo, cominciava i suoi brontolii e teneva tutti a debita distanza; diventava furioso, schiumoso; l’acqua s’infrangeva e rimbalzava sui sassi e con ondate improvvise si riversava violenta nelle zone circostanti. Spesso il fiume straripava modificando quasi completamente, da una volta all’altra, il suo letto. C’erano due o tre ponti di legno per attraversarlo, fatti alla bell’e meglio da uomini di buona volontà, pericolanti e scivolosi ; restati lì per anni e anni a mettere a rischio la vita di uomini e animali. Vicino ad uno di questi, c’era anche una piccola cascata (era l’acqua utilizzata per un mulino) che rendeva il passaggio ancora più difficoltoso. Nei giorni di grande piena, paese e campagne restavano divisi e gli abitanti al di là del fiume, erano costretti, talora, a cercare i viveri nei paesi vicini.
Passate le grandi piogge, dopo alcuni giorni il fiume, sfogata la sua rabbia, ridiventava calmo e la sua acqua incanalata (l’acquaru) ritornava a far girare le ruote dei mulini e ad innaffiare i campi.
Sono tornato nel fiume qualche anno fa: ho stentato a riconoscerlo; le acque sono sporche ed è quasi tutto coperto di rifiuti; un’enorme pattumiera a cielo aperto; il suo letto è cambiato. Alcuni dei ponti sono ancora in legno, forse pericolosi come una volta; i quattro, cinque mulini di un tempo sono diroccati e l’acqua per irrorare i campi, per cui una volta scoppiavano liti violente, non l’utilizza più nessuno. Dei sentieri tutt’attorno non c’è più traccia e di donne intente a fare il bucato non ne ho viste. Certamente, oggi come una volta, il fiume continua a straripare, ma forse di questo è difficile accorgersi perché i campi intorno non li coltiva più nessuno.
Antonio Coltellaro
2 commenti:
Caro Tonino,Ricordi comuni!
A Presto,spero....
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