lunedì 24 maggio 2010

Il fiume

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Il Fiume


‘U jume d’i Cujjienti

 Quand’ero piccolo e  frequentavo le elementari ritenevo di abitare in  un  paese fortunato perché, come ci avevo detto il maestro, i fiumi  fanno la ricchezza dei paesi. E il mio ne aveva uno, così come Vienna, Roma, Parigi,  Londra. Non mi era venuto  minimamente in dubbio  che tra fiume e fiume ci potessero essere delle differenze. Allora  per me, un fiume era un fiume; punto e basta. Poi visti  il Po, il  Tamigi, la  Senna, il  Danubio, il Nilo etc, fatte le debite proporzioni,  ho capito che il nostro, di fiume  aveva solo  il nome e che, pur  utile, la ricchezza al paese  non l’avrebbe mai portata. Fiume, certo, lo è per   avere un  suo letto, ma l’acqua, benefica o distruttrice che sia,  quasi come un gioco delle tre carte  appare  e scompare all’improvviso secondo le stagioni  o gli umori del tempo. In effetti il fiume, come il mitico Giano,  ha due volti: calmo e quasi invisibile d’estate; rumoroso  e ingombrante d’inverno. Uno di quei fiumi torrentizi, tipici del sud d’Italia, che, d’inverno, gonfiati da  violenti  temporali,  si riversano a valle  con furia travolgente,  ora ingoiando, ora rigettando tutto quanto gli si para contro;  d’estate invece, per tante vie traverse si perdono in mille rigagnoli tortuosi.  


Il “ mio” fiume prende la sua forma, quando l’acqua c’è, nel fondovalle, all’inizio del paese, dove si riversano e confluiscono tutti i torrenti provenienti dalla montagna. Per noi, gli abitanti del luogo,  non ha un nome identificativo ma, così come gli egiziani fanno per  il  Nilo, lo chiamiamo unicamente e solamente  “ ’U jume “.
   L’ho conosciuto da piccolo e poi l’ho amato e temuto, portandogli rispetto come si fa  con un essere capriccioso, facile  ai salti d’umore.
  L’ho conosciuto  quando l’acqua era ancora chiara e si vedevano  i girini nuotarvi dentro.  Restavo per  ore  ad osservarli, incuriosito e attratto da queste piccolissime forme di vita.  Mi divertivo a prenderli e, siccome schizzavano tra le mani, ritenevo un successo riuscire a trattenerne uno o due. Nei periodi di secca   attraversavo il fiume, andando  da una riva all’altra. Altre volte mi piaceva sdraiarmi accanto e sentire il suo passaggio come un impercettibile, dolce mormorio; come volesse dirmi: ecco, ci sono; mi piaceva anche tanto camminare e saltare sui massi che l’acqua, col tempo, aveva levigato ed appuntito.  Ci andavo anche  d’estate con i miei amici   a fare il bagno; in un luogo dove l’acqua s’ingorgava.  Lo chiamavano “ ‘u vuddru”.  Si toccava il fondo, ma c’era chi “nuotava “ riuscendo a dare due o tre bracciate e chi dall’alto (si fa per dire) si tuffava.  Io che non sapevo nuotare, li guardavo con grande ammirazione e li invidiavo.  Le donne, al fiume,  vi venivano per fare “ ‘a vucata”. Pioppeti e canneti  disseminati intorno  erano i posti dove  nei caldi pomeriggi estivi  arrivava spesso la gente a rilassarsi  e dove qualche ragazzo veniva  a spiare le  lavandaie con la speranza di vedere  un po’ di gambe  nude e qualche seno svolazzante.
 Già d’autunno, ai primi temporali, il fiume  si svegliava dal letargo estivo, cominciava  i suoi brontolii e teneva tutti a debita distanza; diventava furioso, schiumoso; l’acqua s’infrangeva e rimbalzava sui sassi  e con ondate improvvise  si riversava   violenta  nelle zone circostanti.  Spesso il fiume straripava modificando quasi completamente, da una volta all’altra, il suo letto. C’erano due o tre  ponti di legno per attraversarlo, fatti alla bell’e  meglio da uomini di buona volontà,  pericolanti e scivolosi ; restati lì per anni e anni  a mettere a rischio la vita di uomini e animali.  Vicino ad uno di questi, c’era anche una piccola cascata (era l’acqua utilizzata per un  mulino) che rendeva il passaggio ancora più difficoltoso.  Nei giorni di grande piena, paese e campagne restavano divisi e gli abitanti al di là del fiume, erano costretti, talora, a cercare i viveri  nei paesi vicini.
    Passate  le grandi piogge, dopo alcuni giorni  il fiume, sfogata la sua rabbia, ridiventava calmo e la sua acqua incanalata (l’acquaru) ritornava a far girare le ruote dei mulini e ad innaffiare i campi.
     Sono tornato nel fiume qualche anno fa: ho stentato  a riconoscerlo; le acque sono sporche ed è quasi tutto coperto di rifiuti; un’enorme pattumiera  a cielo aperto; il suo letto è cambiato. Alcuni dei ponti sono ancora in  legno, forse pericolosi come una volta; i quattro, cinque mulini di un tempo  sono diroccati  e l’acqua per irrorare i campi, per cui una volta scoppiavano  liti  violente, non l’utilizza più nessuno.  Dei sentieri tutt’attorno non c’è più traccia  e di  donne intente  a fare il bucato non ne ho viste. Certamente, oggi come una volta, il fiume continua  a straripare, ma forse di questo  è difficile accorgersi  perché i campi intorno non li coltiva più nessuno.

                                                                                                      Antonio Coltellaro

2 commenti:

enzobutera ha detto...

Caro Tonino,Ricordi comuni!

enzobutera ha detto...

A Presto,spero....