Dialetto di Conflenti (CZ), paese calabrese situato nella zona centro-occidentale della regione.
venerdì 9 giugno 2017
Essere bambini nella vecchia Nicastro
All’età di cinque anni, ho incominciato ad andare a ru mastru (presso un artigiano che insegnava il suo mestiere). Era così per tutti i bambini delle famiglie popolari. I maschietti, se il padre praticava un’attività artigianale, l’imparavano anche loro; se il padre era contadino andavano con lui nei campi; se non aveva mestiere e lavorava alla giornata, o se faceva un’attività non eseguibile dai bambini, i figli andavano a imparare un mestiere presso qualcuno, il primo che capitava, purché fosse un vicino di casa, un parente o un amico di famiglia.
Io incominciai con il barbiere: avevo il compito di porgergli gli arnesi man mano che gli servivano. Poi, non seppi perché ad un certo punto mi mandarono dal sarto. Qui il mio compito era di mettere i carboni nel ferro da stiro. Mi sembrava di partecipare a una magia quando il sarto dava fuoco e prendeva a fare girare il ferro per fare incendiare velocemente i carboni. Era una girandola di scintille attorno al suo braccio mentre dal ferro aperto non cadeva neppure un pezzo di carbone. Non vedevo l’ora d’imparare quella magia che mi faceva affezionare all’idea di fare il sarto. Avevo all’incirca otto anni quando mi mandarono dal falegname. Dovevo attraversare un bel po’ di strada per raggiungere la falegnameria. E qui mi capitò un fatto indimenticabile.
Come tutti i bambini delle famiglie povere, camminavo scalzo, e un giorno un chiodo mi si conficcò a un piede. Nonostante l’incidente continuai a procedere. Quando ‘u mastru mi vide con il piede sanguinante e gonfio mi rimandò a casa, così, un po’ saltellando su un piede, un po’ camminando con il piede ferito posizionato di traverso giunsi vicino a casa.
A ra ruga c’erano tante vecchiarelle, che facevano varie attività o parlavano sedute davanti alle porte. Una di loro era quella che calmava ‘u disìenzu e da lei ci portavano le mamme ogni volta che avevamo qualche malessere. Fu lei che con molta normalità mi disse “vieni cca, fìgliuma, cà ‘u chiuavu tu cacciu iu”. Così dicendo mi sollevò il piede e, afferrato il chiodo con i denti, lo estrasse dalla mia carne. Quindi senza disinfezione e con il gonfiore che cresceva tornai nella falegnameria.
Vittoria Butera: popolazioni invisibili
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento