lunedì 10 aprile 2017

Al di là del fiume.

 


Quand'ero piccolo accompagnavo spesso mia madre in campagna. Avevamo tanti piccoli terreni disseminati in varie zone del paese e, 
secondo la stagione, ci recavamo qua o là  per  fare lavori o raccogliere frutta. In autunno uno dei posti dove andavamo  frequentemente erano le parmentelle, un castagneto al di là del fiume. Percorrevamo a piedi   un sentiero che dal paese, dopo una lunga discesa, ci portava in alto a circa 800 metri.

 Mia madre era agile nel camminare ed io facevo fatica a tenerle il passo. Si camminava quasi senza parlare. Il suo obiettivo era di arrivare velocemente e di non perdersi in chiacchiere. Naturalmente era sempre  vigile nel controllarmi e a fare attenzione che non passassi da punti pericolosi. Se ciò succedeva, si fermava e mi 
aiutava. La sua era una finta indifferenza. Era anche un suo modo per  responsabilizzarmi ed aiutarmi a crescere.
 Si usciva dal paese da  una piazza che chiamavano e chiamano Chianiettu; una delle poche vie che ha conservato il suo nome popolare. Della maggior parte delle altre, come del resto d'Italia, si sono  impossessati i Savoia.
Usciti dal paese, dopo avere oltrepassato un piccolo ruscello si arrivava in una zona chiamata "u cacaturu". Un  nome a cui non serve certamente dare spiegazioni. Dico soltanto ch'era uno dei quattro punti di riferimento degli uomini del paese. Quattro come i punti cardinali. Come in un campo minato bisognava fare 
attenzione a dove mettevi i piedi perchè altrimenti pestavi "le  
montagnole" e ti portavi dietro per lungo tempo odori sgradevoli.  Poi  si proseguiva verso il fiume. Più che una via, era un canalone che serviva, nei giorni di pioggia, a convogliare le acque.
 Si scendeva facile e  in poco tempo si arrivava al fiume;  il primo, perché nel paese, anche se piccoli, di fiumi ne abbiamo due che confluiscono. Per attraversarlo c'era un ponte di legno. Scivoloso e senza  barriere di protezione ai lati. Una prova lampante dell'inefficienza delle varie amministrazioni comunali che si sono 
susseguite nel tempo preoccupandosi poco  dell'incolumità dei cittadini ( immaginate le difficoltà della gente di campagna che per recarsi al cimitero del paese attraversava il ponte in corteo e con la bara portata a spalle). Per superarlo bisognava procedere con cautela ed evitare i punti dove il legno era rotto o instabile. Io lo attraversavo col batticuore, timoroso di cadere e sfracellarmi su uno dei grandi massi sottostanti. 
Superato il primo pericolo se ne presentava subito un altro. C'era accanto alla via un mulino ad acqua  e questa, se non utilizzata, si riversava a forma di cascata sul nostro passaggio. Per evitare una doccia estemporanea bisognava passarlo in fretta e nello stesso tempo fare attenzione a non cadere.  Io lo attraversavo con decisione con sentimenti misti di paura e fierezza, che naturalmente si tramutavano in felicità una volta superato.  Il rischio attrae sempre l'adolescente  e queste erano le mie prime prove di coraggio.
Passando accanto al mulino si sentiva il rumore dell'acqua e delle 
macine.  Lo gestivano delle donne ( e mulinare) e a quell'epoca funzionava a pieno ritmo. C'era sempre un viavai di persone che arrivavano e partivano con sacchi molto pesanti. Superato il mulino si arrivava al secondo fiume che, se non  era in piena, era poco più di un ruscello. Là c'erano sempre delle lavandaie intente a fare a lissia. Per lavare e non bagnarsi, tiravano su  i loro panni rossi e le camicie bianche sin sopra al ginocchio.  Uno spettacolo abbastanza raro a quei tempi.  In paese  non si andava più in là della visione delle caviglie e dei piedi. Io, più che con malizia, mi soffermavo a guardare incuriosito lo straordinario candore delle loro gambe.
Qui non c'era un ponte e si attraversava saltando su enormi sassi che emergevano dall'acqua.  Nei giorni di piena si saliva più in alto dove il passaggio era più facile. Cominciava allora la salita attraverso i castagneti. C'erano un po' di tornanti e il cammino era molto ripido. Incontravamo spesso donne che con le fascine   sulla testa e a piedi nudi rientravano dal Reventino (un  territorio del Demanio dove si  poteva  raccogliere liberamente la legna). Nel periodo della raccolta delle castagne s'incontrava  anche molta gente che raccoglieva i frutti  lungo il sentiero, perché si diceva che tutto ciò che era fuori delle proprietà apparteneva a tutti. Ed era una regola che tutti rispettavano. Chiaro che quando c'è da prendere sono tutti d'accordo.  Naturalmente c'era  chi, in assenza del proprietario, si spingeva più in là  della via e velocemente entrava e usciva dai terreni privati raccogliendo la maggior quantità possibile del frutto. Ricordo bene le proprietà che attraversavamo: quella di Maria a chencia, Jacinta ecc. Lungo il percorso c'era una sorgente, dove anche se non avevo sete, mi fermavo a bere. La chiamavano a funtana e Micciu.
Infine c'era un ultimo strappo, fatto il quale si arrivava alle parmentelle. Nell'interno della proprietà avevamo una piccola costruzione chiamata caseddra dove venivano conservate e pelate le castagne. Al nostro arrivo ci dirigevamo sempre lì e  mia madre controllava che tutto fosse in regola. Tranquillizzatasi,   perlustrava il castagneto  e se notava qualcosa di strano  cominciava a borbottare o ad imprecare. Poi, nel periodo della raccolta, iniziava a raccogliere i frutti. Era una donna abile e veloce e non stava a perdere tempo. Riempiva un sacco  velocemente e non l'ho mai vista concedersi pause di riposo.  Sia allora come altre volte lavorava come se non sentisse la fatica. A me, per non farmi sentire inutile faceva fare piccoli lavori. Oppure mi dava un panaro per riempirlo di castagne.
Di solito restavamo lì un paio d'ore, ma era sempre lei a decidere il momento del ritorno. Sia perché riteneva d'aver fatto ciò che aveva stabilito di fare sia perché si avvicinava l'ora di pranzo o, se eravamo andati di pomeriggio, appena cominciava ad imbrunire. Non avevamo orologi, ma dall'ombra degli alberi lei sapeva sempre calcolare l'ora esatta. Il ritorno non avveniva mai a mani vuote. C'era sempre qualcosa da portare via: legna, castagne o foglie che mia madre si caricava in testa e, senza fare una sosta, portava sino a casa. Lo faceva con tale naturalezza che non mi sembrava che facesse fatica.
In discesa, sino al fiume, sapeva dosare il passo. Riattraversavamo i fiumi e sentieri con gli stessi pericoli dell'andata e infine affrontavamo la salita verso il paese. Una volta a casa, mia madre s'avviava in cucina e preparava da mangiare. Come per tutte le donne del paese, finito un lavoro ne cominciava un altro. Allora era questa la vita delle donne.
                                                     Antonio Coltellaro

2 commenti:

Anonimo ha detto...

si tu ccu sta storia ai apiartu u core a tanti cujientari ,ma a tanti cujientari sanu fuarzi bagnatu nu maccaturu o due de mimorie de nu tiampu fa .bravu ntoni pperi riciuardi denavota .Gazie PPere cose de tiampi nuastri

Bruno ha detto...

Ho appena letto il tuo articolo (Al di là del fiume). Complimenti. Mi hai riportato
alla mia adolescenza. Mentre tu, con tua mamma, andavi in campagna ogni
tanto io, quando era il tempo di raccogliere le castagne, ci dovevo andare
tutti i giorni ad aiutare a mamma perche` allora papa`aveva la bottega
e non poteva aiutarla e ricordo che iniziavo l`anno scolastico con tre settimane di ritardo.
Tanti cari saluti Ciao.
Bruno