Voci
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PREFAZIONE
Non è peregrino affermare che una grande
parte della storia della letteratura sia viziata da una mancanza di
libertà. Una mancanza di libertà che consiste nella necessità da parte
dell’autore di compiacere il lettore, creando una forma che sia
comprensibile e piacevole per il medesimo, controllandone la lettura
attraverso un sapiente dosaggio di tempi e modi e dialoghi. Nel
tentativo di rendere l’esperienza del lettore ricca e coerente, la
letteratura si è spesso mostrata e continua a mostrarsi come un genere
“ossequioso”.
Chi scrive aforismi non ha mai cercato di compiacere il lettore, consapevole che il libro – lungi dall’essere un sogno o un’avventura – è al contrario “un pericolo”, come ebbe anche a scrivere Cioran nel suo libro Squartamento. L’aforisma, attraverso il frammento, proprio perché è una parte che si stacca dal tutto, esprime una ribellione (alla realtà, al potere, ai luoghi comuni). L’aforisma non acconsente, ma al contrario diffida e dissente dalla realtà. Questo spiega meglio di ogni altra cosa il motivo per cui l’aforisma è un genere di nicchia. Esso pone domande spesso scomode, ci costringe a pensare e guardare la realtà da un altro angolo visuale (la radice aphorizein si ricollega alla parola “orizzonte”, in qualche modo è il sottrarre un oggetto da un orizzonte per metterlo in un altro orizzonte) e non sempre il lettore ha voglia di compiere questa operazione (una particolare “ginnastica della mente” come la definisce un autore tedesco). Come scrive molto bene l’aforista della repubblica ceca Jan Sobotka, “l’aforisma è una forma letteraria che fa risparmiare non solo carta, ma anche lettori”. Così scrittori di aforismi di grandissimo rilievo come Stanislaw Jerzy Lec (autore dei Pensieri Spettinati), Gomez de la Serna (l’inventore delle “greguerias”) e qui in Italia Leo Longanesi sono fuori catalogo e irreperibili in libreria. È un po’ come se i libri di Marcel Proust nella narrativa o Thomas Stearns Eliot nella poesia fossero introvabili. La cosa sorprende parecchio (in altri paesi con un diverso funzionamento editoriale gli autori sono in catalogo), ma è comunque coerente con il profilo di nicchia dell’aforisma. Tra i tanti libri fuori catalogo qui in Italia ce n’è uno che merita davvero attenzione: le Voci di Antonio Porchia. Il poeta e critico letterario francese Roger Caillois (che fu anche scrittore di aforismi), durante un viaggio a Buenos Aires nel 1947, scoprì per caso le Voci, rimanendone assolutamente affascinato. Due anni più tardi, la traduzione in francese delle Voci fece guadagnare ad Antonio Porchia la fama internazionale e l’apprezzamento da parte dei surrealisti francesi come André Breton che ebbe a scrivere “Il pensiero più duttile di espressione spagnola è, per me, quello di Antonio Porchia”. Nel 1974 arriva la consacrazione definitiva da parte di Octavio Paz che in un articolo su ‘Plural’ parlerà di Porchia come “di una figura capitale della letteratura ispanoamericana. Capitale proprio per la sua marginalità”, mentre il romanziere americano Henry Miller incluse le Voci tra i cento libri di una biblioteca ideale. Alejandra Pizarnik in una lettera scritta ad Antonio Porchia afferma: “Il suo libro è il più solitario, il più profondamente solo che sia mai stato scritto al mondo, e ciò nonostante, rileggendolo a mezzanotte, mi sento accompagnata, o per meglio dire, protetta”. E Jorge Louis Borges scrive: “Le massime corrono il rischio di sembrare delle pure equazioni verbali. Noi siamo tentati di vederci l’opera dell’azzardo o di un’arte combinatoria. Ma non nel caso di Novalis, La Rochefoucauld o Antonio Porchia. Presso di loro il lettore sente la presenza immediata di un uomo e del suo destino”. Qualcuno definisce Antonio Porchia un mistico e un santo, altri un allievo di Lao Tzu e della filosofia orientale, altri un oracolo eracliteo, altri ancora un poeta, altri infine un filosofo molto vicino al pensiero di Wittgenstein (molti degli aforismi di Antonio Porchia si potrebbero infatti rapportare alla famosa affermazione di Wittgenstein: “I limiti del mio linguaggio rappresentano i limiti del mondo” e “Chi dice la verità, non dice quasi nulla”, vertendo sulla impossibilità di dire il dicibile, di rappresentare il rappresentabile). Antonio Porchia è tutto questo, ma anche altro. Già a partire dal titolo della raccolta, Voces, emerge la complessità dell’opera e la difficoltà di inquadrarla all’interno di un contesto univoco. Alla scrittrice Inès Malinow che, in una intervista del 1964, gli chiedeva perché il titolo Voces, Antonio Porchia risponde: “È difficile dirlo. Tutto si ascolta. E si ascolta di tutto” e poi continuando: “Uno è un’infinità di cose. La certezza chi ce l’ha? Il mio libro Voces è quasi una biografia, che è quasi di tutti”. Spetta quindi al singolo lettore il compito di giudicare l’essenza di quest’opera che sembra scritta con la naturalezza con cui si respira, ma che in realtà nasconde una profonda meditazione sull’anima e sul mondo. Il primo lettore di Porchia, Roger Caillois, così scrisse a proposito dell’autore argentino: “Trovai l’opera di Porchia a Buenos Aires quando facevo le recensioni di libri che ci inviavano gli autori per commentarli sulla rivista ‘Sur’. Evidentemente ne ricevevamo talmente tanti che io li leggevo superficialmente per selezionare quelli che meritavano un commento. All’improvviso, vidi un libro molto umile, e non so quale energia fece in modo che io mi arrestassi e cominciassi ad esaminarlo. Non volevo crederci, e non potei più fermarmi prima di aver finito di leggerlo. Dopo, cercai di sapere chi ne era l’autore; nessuno lo conosceva, ma io lo incontrai. E dissi a Porchia: ‘Io scambierei per queste righe tutto quello che ho scritto’”. In un contesto in cui, come ebbe a scrivere Stanislaw Jerzy Lec in un suo aforisma, “I lettori non amano che i pensieri che non fanno pensare”, quelli di Porchia sono al contrario pensieri che fanno pensare e ri-pensare il fine ultimo della nostra esistenza. Quasi componendo una piccola guida sull’anima umana e le sue numerose contraddizioni (di qui anche la particolare sensibilità dell’autore nell’indagare l’esistenza degli opposti, quella sfera dove ognuno degli elementi può rovesciarsi nel suo contrario, e questo, a sua volta, può ribaltarsi di nuovo: reale-irreale, possibilità-impossibilità, bene-male, principio-fine, sapere-innocenza, affermazione-negazione, guadagno-perdita, essere-non essere, povertà-ricchezza, libertà-rischio, verità-bugia, bellezza-bruttezza), gli aforismi di questo libro smontano l’insieme degli artifici linguistici e sociali del nostro mondo con interrogazioni continue, brevi frasi sospese nel silenzio a catturare frammenti di energia da cui ripartire. Con questo volume, che è il terzo della collana Aforisticamente, la speranza è che torni l’attenzione su una delle più grandi “voci” del novecento, ingiustamente trascurata dal nostro panorama editoriale. Si ringrazia Vittoria Butera, residente a Conflenti e studiosa di Antonio Porchia, per i preziosi consigli (parte delle informazioni contenute nella biografia di questo libro sono ricavate dal suo libro, Pillole di saggezza, la vita e l’opera di Antonio Porchia). Si ringrazia anche Corrado Porchia, residente a Conflenti, per avermi incoraggiato nella stesura di questa opera.
Fabrizio Caramagna
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