domenica 19 marzo 2023

La guerra.

 Conflenti - 14 marzo 2023

vite rubate


            Lassù sulla montagna


 Sposato con Rosaria, di due anni più giovane, sta per diventare papà quando gli arriva l’ordine di arruolarsi, nel marzo del 2015.


Tessere di storia del Novecento 

Momenti di ricordi tra sogni, realtà e fantasia a Conflenti


Lassù sulla montagna

 

 

Il soldato Eugenio Giudice ha 33 anni quando parte per la prima guerra mondiale. Da poco è tornato dall’America dove è stato qualche tempo senza grandi risultati. Prima di allora ha conosciuto soltanto il suo paese o le frazioni vicine, quelle che si possono raggiungere a piedi. Ha anche visto il mare della Calabria, certo. A Pizzo Calabro, un borgo appeso alla roccia, tutto grigio, poco distante da Tropea. Ma sarà capitato due volte, forse tre. Non di più.

Eugenio è un uomo come tanti a Conflenti, tra le montagne a ridosso della Sila piccola. Le sue giornate scorrono con la stessa lentezza e la stessa durezza che hanno gli attrezzi per lavorare la terra, la pala, il piccone, il rastrello. Sposato con Rosaria, di due anni più giovane, sta per diventare papà quando gli arriva l’ordine di arruolarsi, nel marzo del 2015. Il figlio Francesco, ma che tutti in famiglia chiamano Antonio perché nasce il 13 giugno, ha già il destino segnato. Non potrà mai ricordarsi di suo padre, se non attraverso il racconto della madre e dei parenti che vivono attorno a lui.

Per un primo periodo il soldato Eugenio farà una preparazione sommaria a pochi chilometri da Conflenti, a San Fili di Rogliano, poi aspetterà la vera e propria chiamata alle armi. Quando è il momento, dovrà lasciare gli affetti e la piccola casa di una sola stanza per piano che sembra essere messa di traverso nel vicolo che scende ripido verso la chiesa di Santo Nicola, con un dolore pesante almeno quanto la sua rassegnazione, alimentata dall’ignoranza e dallo stupore per quanto sta accadendo in quei mesi di guerra. Tra le case del suo paese ne arriva un’eco confusa. Lui, di origini umili, quasi analfabeta, non è in grado di capire cosa stia capitando a oltre mille chilometri di distanza, lì al fronte. Conosce la fatica della sopravvivenza, con cui è diventato uomo e marito, ma non il terrore della morte che non lascia scorrere il tempo. Il suo avvicinamento ai campi di battaglia sarà lento e laborioso, durerà diversi giorni, Eugenio andrà e tornerà dal fronte.

Con la sua classe, quella del 1882, è nella milizia mobile, i congedati ancora in gamba, destinata dietro la prima linea. Ma si sa che quando la battaglia infuria prima o poi tocca a tutti provare a restare vivi. Per due volte farà ritorno a casa. Subito dopo l’addestramento, poi per alcuni mesi dopo la nascita del figlio. Una gioia breve, che acutizzerà il tormento nelle ore più buie dei campi di battaglia. Dal novembre 1915 risale al nord e non rivedrà più la sua Rosaria, a cui dà rispettosamente del voi, il suo piccolo Antonio, i suoi cari e il suo paese. Il 19 maggio 1916 rimane vittima della Strafexpedition, la grande offensiva lanciata dall’esercito austrungarico, quattro giorni prima, il 15 maggio, lungo le valli di imbocco al Veneto. Un attacco che costerà decine di migliaia di morti all’esercito italiano, ma fermato in extremis sulle prealpi vicentine e sul confine dell’altopiano di Asiago una quarantina di giorni dopo. L’ultima lettera di Eugenio è dell’11 maggio.  La moglie Rosaria dopo aver tentato invano di contattarlo non avrà bisogno di aprire la busta gialla con l’atto di morte proveniente da Campoluzzo Arsiero, poco distante da Vicenza.

La corrispondenza di questi 14 mesi tra gli sposi segue il ritmo degli eventi. Il fante Eugenio usa toni pacati, durante l’addestramento o nei mesi di Catanzaro, malinconici nei periodi di riposo, angosciati nei momenti al fronte, a volte infuriati, ma sempre sorretti dalla speranza che la Madonna a cui non manca mai di rivolgere una preghiera, possa comunque proteggerlo.

Eugenio scrive le sue quasi quotidiane cartoline postali alla sposa Rosaria in una lingua che non è il dialetto, e che quindi non esprime a pieno i sentimenti, e non è l’italiano, che conosce appena. La carta, la penna e l’inchiostro filtrano i suoi pensieri come dei setacci sempre più fini. Di scritto resta soltanto un accenno di quanto vorrebbe dire, e di quanto non sa e in parte non può dire. “Oggi in punto forse dobbiamo partire e non sappiamo dove ci tocca andare mentre non ce lo dicono mai”, scrive il 18 aprile 1916. Non c’è patria, tra le sue righe, ma solo ciò con cui ha a che fare ogni giorno, famiglia, parenti, amici, o i soldi che mancano. Oppure la fede. C’è lo Stato che ordina, che dispone, che multa, ma la nazione? Chissà... Eppure dicono che la trincea crei nuovi cittadini, abbatta le barriere tra nord e sud, più di un trattato.

Sembra spoglia la sua corrispondenza. Eugenio si avvicina al foglio, spesso un cartoncino grande quanto una mano, con timidezza, quasi con imbarazzo. Ma sa che quello è l’unico inestimabile legame con i suoi affetti. E infatti quando le risposte tardano a farsi sentire, si premura di spiegare a Rosaria che l’indirizzo, il suo nome, il reggimento vanno scritti in grande, altrimenti c’è il rischio di perdersi.  “Illi nome dello mio reggimento - avverte - lo doveti scrivere più grande, giusto come lo faccio io a questo indirizzo”. E cinque, sei righe, delle poche che ha a disposizione, si perdono spesso con una sorta di formulario degli affetti imparato da qualche conoscente più scolarizzato: “Cara sposa vi scrivo questa mia cartolina dove vi notizio lottimo stato della mia buona salute come lo stesso spero che la mia presente trova avvoi insiema a nostro figlio Antonio”.  Che cosa dire quindi? Di quest’avventura più grande di lui, e che solo persone come lui può trascinare inermi verso l’inferno delle trincee? Nulla o quasi. E’ come un altro mondo di cui non ci si è mai occupati, come la morte, di cui non si riesce mai a immaginare la propria. Allora meglio chiedere protezione alla Beata Vergine appunto. Oppure, far finta che la propria vita, quella di ogni giorno, l’unica che ha imparato a maneggiare, prosegua come sempre.  “Se vi capita qualche tomolo d’indiano (qualche terreno di granturco, ndr) lo pigliate con un po’ di tempo che poi nella mia venuta (quando torno, ndr) si paga tutto – sollecita la moglie - e pure se vi capita il grano e pure iermano (la crusca, ndr) lo pigliate che poi si paga. Credo che ai capito tutto”. Oppure aggiunge a dicembre: “Fatemi sapere se vostro padre si è preso lo maiale”.

Ma non appena alza gli occhi, quella immensa ruota di cui lui è minuscolo ingranaggio si mostra amara e indecifrabile: “Ci tocca andare a Modena poi più avanti. Non c’è chi fare niente perché anche i zoppi devono partire.  Pure vi dico che hanno chiamato altre due classi di terza bontà”, scrive da Catanzaro il 30 ottobre 2015 e poi pochi giorni dopo, giunto a Padova rincara: “Siamo come le mosche il mese di agosto e per ogni ora giungono treni pieni di soldati”. Eugenio torna quindi al fronte. Nelle retrovie. E quando con la sua compagnia deve rimanere a disposizione, le richieste di denaro si fanno insistenti: “Qui danno due cocci di pasta la mattina e un po’ di brodo la sera e se non tengo niente nella tasca vado a vedere gli altri compagni come mangiano”. Qui - spiega il 15 novembre 1915 - non siamo nella zona di guerra che decidono tutto quello che ti occorre di fare i merci possibile di mandare dieci lire perché qui mi fanno morto (qui rischio di morire, ndr)”. Poi però quando viene gettato assieme ai suoi commilitoni nel terreno del combattimento sale la disperazione: “Dormo, mi sogno sempre che loo sopra (lo tengo tra, ndr) le mie braccia – scrive riferendosi al figlioletto – ma poi quando mi sveglio mi trovo ingannato e poi comincio a pensare la mia fortuna (il mio destino, ndr) dove mi trovo  a dormire a terra senza niente dentro la neve e poi per notte e giorno niente altro che i rombo dello cannone e anche pure quello delli eroplani che vanno pellaria (gli aerei che viaggiano in cielo, ndr) pero ora mi trovo e devo fare (faccio quello che mi dicono, ndr) ”.

Il 18 dicembre 1915 fa il primo resoconto di battaglia, da cui esce illeso: “Abbiamo avuto cinque giorni di combattimento che nonno abbiamo avuto tempo a scrivere dove grazie i Dio per questa volta abbiamo fatto franca solo Domenico Butera fu ferito a uno braccio e adesso siamo ritornati a riposo fino a nuovo ordine però dormiamo sempre in campagna, poi di altro non so”. A gennaio 1916 è a Conegliano a riposo e a febbraio si fa strada la speranza di una licenza. “Si dice che dopo che abbiamo terminato tre mesi (dopo aver fatto tre mesi, ndr) in zona di guerra ci danno la licenza ed io per terminare questo tempo ci vuole il 20 di questo mese. Me la devono dare perché ancora dello mio reggimento quelli che siamo della classa dell’82 ancora nessuno è andato a licenza perciò aspettiamo giorno per giorno questa grazia”. Invece non avrà nessuna licenza. A maggio tornerà al fronte. Per l’ultima volta.  

“Voglio sapere il motivo che non mi scrivete mentre io al mondo devo stare sempre arrabbiato – si sfoga con la moglie Rosaria il 5 maggio 1916 -  per questo vi prego che voglio risposta subito altrimenti non vi scrivo più a nessuno e così mi faccio un conto che non tengo a nessuno (mi convinco di essere rimasto solo, ndr) ”. Ma se ne pente immediatamente e appena può chiede scusa: “Avevo una sbornia troppo di rabbia verso da voi…- scrive nella lettera del 7 maggio - io ascoltavo che si distribuiva la posta e da tutti della nostra compagnia avevano lettera: chi due chi tre e per me resto un orfano senza nessuno e per questo figurati che momento di rabbia che io mi avvenne.  Che poi per potermi passare della mia idea (Ma poi mi è passata, ndr) prima vi scrissi questa cartolina dove indico i fatti e poi mi misi a piangere come un ragazzo sempre contro la mia fortuna (destino, ndr). Ma non ti credere che piangevo perché non avevo soldi, solo piangevo che io volevo una lettera da voi. Per questo Vi dico di scusare se in caso avrò messo qualche parola malamente. Perché io lo scrissi e dopo che l’ho messa nella buca me n’ero pentito e neanche mi ricordo cosa ti diceva”.

Poi fa un accenno ai movimenti al fronte: “Da qui partiremo. Andiamo adesso nell’accampamento dove dicono che siamo in terza linea e il posto che noi andiamo si chiama Marga Zolle che è una montagna troppo alta e pure dicono che non è tanto cattivo solo che ci sta la neve. Ho sempre la speranza allo nostro Iddio che mi deve aiutare alla beata vergine dello Carmine che mi deve scansare da questo fracello”. E due giorni dopo, il 9 maggio, aggiunge qualche altra informazione, sempre generica: “Da quelle parti che mi trovavo prima che era nella provincia di Udine adesso sono cambiato e sono venuto a quest’altro posto che sono adesso che si trova vicino allo ponte e questo ponte è nello Trentino. Però questo paese che sono io adesso va nella provincia di Vicenza per questo vi dico che io sono ancora a riposo però siamo di riserva che può essere di stare un mese, può essere di stare anche due, e può essere di stare pochi giorni. Perciò vi dico che siccome hanno bisogno dobbiamo fare (dobbiamo fare ciò che ci chiedono, ndr)”. E’ un posto comunque dove non si dovrebbe combattere. Così, almeno, crede Eugenio: “Vi dico a voi di non stare tanto dispiaciuta (preoccupata, ndr). Tutti quelli che ci sono stati a questo ponte, che ci tocca andare a noi in caso hanno bisogno, dicono che non è pericoloso perché non si fanno delle avanzate che si sta nell’offensiva (non si fanno assalti, ndr), fino adesso. Speriamo che la Beata Vergine del Carmine ci scansa da questi pericoli e pure di fare terminare la nebbia”. Una nebbia che sembra quasi a tono con il fatalismo che accoglie la grande tragedia.

Mentre se c’è una cosa che Eugenio coglie nitidamente e in modo più pungente del freddo che lo avvolge è il dispetto che lo Stato gli fa multandogli, e in modo salato, la corrispondenza non affrancata: “Avete pagato otto soldi – si rammarica - , voglio sapere da voi se era per il peso oppure una multa che non c’era il franchibolli perché per le nostre lettere non si paga più di venti centesimi”. Siamo alla fine, la nebbia si è diradata, e non si sa se sia davvero un bene. Se la morte che sta per arrivare, si mostrerà con la stessa nitidezza di quelle giornate: “Siamo giunti alle montagne dello Trentino – annota l’11 maggio -  ci sta buona aria fresca e pure la neve, però ancora non si sa cosa dobbiamo fare. Vuol dire che io però quel giorno vi scrivo sarvo che ….”. Salvo che, appunto, sia il destino a scrivere per lui l’ultima lettera.

Vittoria Butera 

Eugenio Giudice

1 commento:

Anonimo ha detto...

triste.non ce una risposta nessuno mai avra la risposta che ogni un di noi desidera .sulu a madonna ccepodare a pace