Conflenti - 26 novembre 2022
Ricordando il passato
Conflenti. Chiuso nella stretta corona dei monti di una estrema propaggine della Sila, il mio paese mi forniva una visuale troppo limitata perché lo sguardo potesse oltrepassare le vette e raggiungere l’infinito aldilà della siepe leopardiana. Mi sovrastava un cerchio di cielo, che di sera, riempiendosi di stelle, si congiungeva al divino come fosse la cupola di una cattedrale sostenuta dai pilastri delle cime montane. Di giorno, quel cerchio di cielo, sebbene apparisse isolato dalla distesa cosmica, me ne portava il respiro coinvolgendomi nei misteri di lontananze sconosciute.
Il monte che vedevo di fronte è il Reventino. Mi sottraeva il sole non molto dopo essersi allontanato dallo zenit, lasciando che le ombre incominciassero a preparare la discesa nel paese. Quello stesso monte diffusore di ombre preserali propagava nello stesso tempo un sentimento religioso. Erano la chiesetta della Querciuola eretta sul suo culmine, e la purezza incontaminata dei boschi che conservando il senso ancestrale del sacro lo collegano al divino. Il venerdì sera, all’ora del vespro, ci affacciavamo da finestre e balconi rivolgendo lo sguardo e l’anima alla Querciuola sul monte. Tenevamo una candela accesa in attesa che scendesse lo Spirito Santo. Non so quali preghiere bisbigliasse mia mamma, essendo sussurrate per non interrompere la religiosità del silenzio. Il silenzio. Anche la parola potente della preghiera si annulla davanti al silenzio.
Per me in quella fase d’età, come per le generazioni primordiali, il mondo era interamente divino, in particolare i territori sconosciuti aldilà delle montagne e le distese marine, dove il mio sguardo, varcando la linea di unione con il cielo, navigava fino a raggiungere gli spazi sconfinati del cosmo e, superando anche quel limes, mi introduceva nei giardini paradisiaci.
Trascorrevo tre stagioni tra i monti; l’estate al mare di Pizzo. Durante la lunga permanenza a Conflenti, a volte nelle giornate di primavera, andavo a scoprire l’altra faccia di quel cerchio di cielo all’interno delle acque fluviali scorrenti lungo le radici del Reventino. I rintocchi delle campane si espandevano inumidendosi nel vapore dell’aria, e l’eco li amplificava oltre l’alto orizzonte montano da dove li riportava sapidi di un altrove numinoso. Il cielo si duplicava: il cielo in alto; il cielo all’interno del fiume. Sporgendomi oltre il margine della sponda, m’illudevo di toccarlo, d’immergermi tra le sue nuvole; e invece, quello fuggiva scorrendo insieme alle acque e precipitando in profondità inaccessibili. Sui fondali del fiume, la continuità del cielo appariva interrotta, frantumato lo spazio infinito ed eterno. Ora il cielo, non più inalterabile e perenne, lo percepivo pari, per fragilità, agli esseri terreni che la morte può scindere in qualsiasi momento, strapparli dalle loro dimore, sottrarli agli affetti. Avevo già sperimentato la morte di persone care, e non mi confortava la corrispondenza tra il mistero del cielo e le esistenze terrene. Non mi rasserenava la scoperta delle fragilità comuni tra la natura e la vita umana; piuttosto, m’insinuava nell’animo una malinconia che soltanto in seguito avrei collegato alla perdita delle certezze in punti di riferimento metafisici.
Vittoria Butera (una pagina autobiografica)