lunedì 28 gennaio 2019

Il terremoto del 1783.

Il 5 febbraio il sole s'era alzato radioso. Appena alcune nuvole leggere si mostravano lontano nel cielo. La temperatura era fresca e non c'era un alito di vento. Né l'Etna, né il Vesuvio, né lo Stromboli davano segno di attività anormale nei loro crateri. Tutta la natura, all'approssimarsi della primavera, cominciava a rivestire il suo ornamento di feste sotto i raggi d'un sole brillante. Niente avvertiva dell'avvicinarsi del pericolo e l'uomo si lasciava andare nella tranquillità d'una fiducia assoluta.

 Pertanto gli animali, tutte le testimonianze lo confermano, davano segni d'una strana e inspiegabile paura. I volatili di cortile si agitavano confusamente e svolazzavano qua e là tutti spaventati schiamazzando, come se cercassero di sfuggire a un pericolo. I cavalli scalpitavano con una specie di angoscia, drizzavano le orecchie, si impennavano ed emettevano dei nitriti di cui non si poteva capire la causa. Nelle stalle i buoi, con il pelo dritto, muggivano e allargavano fortemente le loro quattro zampe come se avessero cercato di attaccarsi in una maniera più solida sul terreno. I gatti uscivano dalle case come quando esse minacciano di crollare. I cani, l'aria rabbuiata e inquieta, urlavano la morte, come dicono i contadini. Tutte queste manifestazioni dell'istinto degli animali, misteriosamente avvertiti da qualcosa che sfugge all'uomo, furono capite dopo l'avvenimento. In quel momento non vi si faceva affatto attenzione oppure ci si stupiva senza sapere capire l'avvertimento che per molti poteva significare la salvezza.
Bruscamente, a mezzogiorno e mezzo, un fragore più rimbombante del più violento tuono salì dalle profondità della terra e quasi immediatamente una scossa, di cui non se ne ricordava una simile smosse il suolo. Essa durò due minuti, tempo enorme in simile caso, benché corto per se stesso. Questo lasso di centoventi secondi bastò per così dire a non lasciare una sola casa in piedi su un'estensione di 60 leghe quadrate circa e sotterrare 32.000 morti sotto le rovine. 
Il terremoto del 9 febbraio 1783 ebbe per teatro, sul continente italiano e all'estremità adiacente della Sicilia, la regione situata tra 38° e 39° di latitudine. Se si prende per epicentro la piccola città di Oppido, ai piedi del versante nord -ovest dell'Aspromonte, non lontano dal corso superiore del fiume Marro e si descrive intorno a questo centro un cerchio di 32 chilometri di raggio, lo spazio così delimitato comprenderà la superficie del territorio di tutte le città e i paesi che furono distrutti. Il movimento, già ben diminuito, ma ancora sensibile si propagò sino ad Otranto in una direzione, dall'altra sino a Lipari, in una terza fino a Palermo. Non si sentì che una oscillazione quasi impercettibile nella Puglia e nella Terra di Lavoro, niente assolutamente a Napoli e negli Abruzzi.
La prima scossa, quella di mezzogiorno e mezzo, di cui ho appena indicato l'area, fu delle più complicate nella sua natura e nella sua direzione. Il suolo si agitava in tutti i sensi, ondeggiava come le onde, a tal punto che alcune persone sentirono l'effetto del mal di mare. Dolomien e Hamilton affermano, secondo testimoni oculari degni di ogni fede, che si videro in certi luoghi la cima degli alberi abbassarsi e toccare terra. C'erano nello stesso tempo violenti movimenti verticali, spinte dal basso in alto. Infine la terra sembrava girare.
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Niente di ciò ch'era stato edificato sulla superficie della terra poteva resistere a dei movimenti così complicati. Le città, i borghi, le case isolate nella campagna, tutto fu raso al suolo nello stesso momento. Gli alberi furono sradicati. Le fondamenta delle case sembravano vomitate dalla terra. Le pietre erano maciullate, triturate con violenza le une contro le altre.
Il maggior numero di vittime fu schiacciato dalle macerie degli edifici. Altri, soprattutto i contadini che fuggivano attraverso la campagna, furono inghiottiti nelle fratture che s'aprivano sotto i loro piedi e si richiudevano quasi immediatamente sulle vittime, gli alberi e le case che vi erano precipitate. E' probabile che i loro scheletri siano ancora sotterrato a parecchie centinaia di metri in queste fratture richiuse. Molte persone infine perirono bruciate negli incendi che seguirono la caduta delle case, dove quasi dappertutto il fuoco si trovava ancora acceso nelle cucine, nel momento della scossa, per il pasto di mezzogiorno. Questi incendi scoppiarono con furore nella città che come Oppido, Palmi e Messina, tenevano vasti magazzini d'olio abbondantemente riempiti.
Lo stesso giorno, 5 febbraio a mezzanotte si produsse una breve scossa, violenta e complicata quanto la prima. Essa costò la vita a un numero relativamente ristretto di persone. Dappertutto la popolazione era scappata fuori dalle rovine della città e dalle abitazioni e restava all'aperto, spaventata, senza riparo e senza risorse. L'intensità principale di questa seconda scossa esercitò la sua azione un po' più a sud della prima. Le sue distruzioni furono soprattutto notevoli sulle due rive dello stretto di Messina in Sicilia, nel val Demone. Fu essa che determinò la rovina delle due grandi città di Reggio e Messina; più a nord, è vero, non restava più niente da far crollare. E fu ugualmente in occasione della scossa di mezzanotte che si vide il mare sulla costa vicina allo sbocco dello stretto del Faro ritirarsi bruscamente per poi ritornare quasi subito innalzandosi di sette metri al di sopra del suo livello abituale, e spazzare tutto al suo passaggio. Racconterò in seguito la drammatica catastrofe che visse allora Scilla.
La seconda scossa del 5 febbraio fu accompagnata da un'emissione di vapore,di fumo, di materie infiammate dal grande cratere dell'Etna, molto più abbondante del consueto. Quest'ultimo fenomeno si prolungò per parecchi giorni e durante la stessa durata le oscillazioni del suolo si ripeterono giornalmente, ma molto attenuate nell'estremità meridionale della Calabria e nel nord della Sicilia. Si giunse così sino al 25 marzo, data d'un nuovo e non meno formidabile terremoto, coincidente con un'eruzione eccezionale dello Stromboli. La scossa ebbe luogo alle nove di sera e fu preceduta ancora una volta da un rumore sotterraneo simile a un violento rombo d'un tuono, dopo di che il suolo si mise a oscillare in una maniera così terribile e così strana come il 5 febbraio. Il centro d'azione di questo nuovo terremoto, del 28 marzo, s'era spostato in rapporto a quello del mese precedente; esso era più a nord, verso la congiunzione del massiccio della Sila all'Appennino. Così la scossa fece sentire principalmente la sua furia nella regione attorno all'istmo di Squillace; la sua area principale d'intensità fu compresa nel quadrilatero che delimitano i capi Vaticano e Suvero sul mare Tirreno, Stilo e Colonna sul mare Ionio. Essa fece cadere una serie di città, di borghi e di villaggi, più di settanta, che avevano subito pochi danni il 5 febbraio, ma fece molto meno di vittime, perché la popolazione stava all'erta e s'era accampata nelle campagna. D'altronde le distruzioni materiali non furono così notevoli quanto lo erano state la prima volta. Le città le più provate, come Nicotera, Monteleone, Squillace, Nicastro, Catanzaro, Santa Severina e Crotone non furono distrutte che in parte.
Le scosse non si fermarono lì. Durante tutto il resto del 1783 si ripeterono parecchie volte al giorno, ma diminuendo gradualmente di violenza. Le ultime furono sentite nel mese di febbraio e di marzo 1784. Se ne contarono in tutto 949. Poi tutto si calmò, il suolo riprese la sua stabilità normale e a poco a poco la sicurezza ritornò e si ricominciò a ricostruire le rovine e a riparare le piaghe di ogni tipo provocate da un così spaventoso disastro.
Le altre grandi scosse del 5 febbraio e del 26 marzo erano costate la vita a più di 40.000 persone nelle tre province della Calabria e in Sicilia. Hamilton, d'accordo con i documenti ufficiali, valuta a 25.000 circa quelle che soccombettero nei mesi seguenti per le febbri contagiose e per le epidemie occasionate dall'infezione cadaverica, dalll'insufficienza degli alimenti e dalla mancanza di riparo contro le intemperie dell'atmosfera.
 
(F. Lenormant - La Magna Grecia- Traduzione di Antonio Coltellaro)

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