Il
5 febbraio il sole s'era alzato radioso. Appena alcune nuvole leggere
si mostravano lontano nel cielo. La temperatura era fresca e non
c'era un alito di vento. Né l'Etna, né il Vesuvio, né lo Stromboli
davano segno di attività anormale nei loro crateri. Tutta la natura,
all'approssimarsi della primavera, cominciava a rivestire il suo
ornamento di feste sotto i raggi d'un sole brillante. Niente
avvertiva dell'avvicinarsi del pericolo e l'uomo si lasciava andare
nella tranquillità d'una fiducia assoluta.
Pertanto gli animali,
tutte le testimonianze lo confermano, davano segni d'una strana e
inspiegabile paura. I volatili di cortile si agitavano confusamente e
svolazzavano qua e là tutti spaventati schiamazzando, come se
cercassero di sfuggire a un pericolo. I cavalli scalpitavano con una
specie di angoscia, drizzavano le orecchie, si impennavano ed
emettevano dei nitriti di cui non si poteva capire la causa. Nelle
stalle i buoi, con il pelo dritto, muggivano e allargavano fortemente
le loro quattro zampe come se avessero cercato di attaccarsi in una
maniera più solida sul terreno. I gatti uscivano dalle case come
quando esse minacciano di crollare. I cani, l'aria rabbuiata e
inquieta, urlavano la morte, come dicono i contadini. Tutte queste
manifestazioni dell'istinto degli animali, misteriosamente avvertiti
da qualcosa che sfugge all'uomo, furono capite dopo l'avvenimento. In
quel momento non vi si faceva affatto attenzione oppure ci si stupiva
senza sapere capire l'avvertimento che per molti poteva significare
la salvezza.
Bruscamente, a mezzogiorno e mezzo, un fragore più
rimbombante del più violento tuono salì dalle profondità della
terra e quasi immediatamente una scossa, di cui non se ne ricordava
una simile smosse il suolo. Essa durò due minuti, tempo enorme in
simile caso, benché corto per se stesso. Questo lasso di centoventi
secondi bastò per così dire a non lasciare una sola casa in piedi
su un'estensione di 60 leghe quadrate circa e sotterrare 32.000 morti
sotto le rovine.
Il
terremoto del 9 febbraio 1783 ebbe per teatro, sul continente
italiano e all'estremità adiacente della Sicilia, la regione situata
tra 38° e 39° di latitudine. Se si prende per epicentro la piccola
città di Oppido, ai piedi del versante nord -ovest dell'Aspromonte,
non lontano dal corso superiore del fiume Marro e si descrive intorno
a questo centro un cerchio di 32 chilometri di raggio, lo spazio così
delimitato comprenderà la superficie del territorio di tutte le
città e i paesi che furono distrutti. Il movimento, già ben
diminuito, ma ancora sensibile si propagò sino ad Otranto in una
direzione, dall'altra sino a Lipari, in una terza fino a Palermo. Non
si sentì che una oscillazione quasi impercettibile nella Puglia e
nella Terra di Lavoro, niente assolutamente a Napoli e negli Abruzzi.
La
prima scossa, quella di mezzogiorno e mezzo, di cui ho appena
indicato l'area, fu delle più complicate nella sua natura e nella
sua direzione. Il suolo si agitava in tutti i sensi, ondeggiava come
le onde, a tal punto che alcune persone sentirono l'effetto del mal di mare. Dolomien e Hamilton affermano, secondo testimoni oculari
degni di ogni fede, che si videro in certi luoghi la cima degli
alberi abbassarsi e toccare terra. C'erano nello stesso tempo
violenti movimenti verticali, spinte dal basso in alto. Infine la
terra sembrava girare.
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Niente di ciò ch'era stato edificato sulla superficie
della terra poteva resistere a dei movimenti così complicati. Le
città, i borghi, le case isolate nella campagna, tutto fu raso al
suolo nello stesso momento. Gli alberi furono sradicati. Le
fondamenta delle case sembravano vomitate dalla terra. Le pietre
erano maciullate, triturate con violenza le une contro le altre.
Il maggior numero di vittime fu schiacciato dalle
macerie degli edifici. Altri, soprattutto i contadini che fuggivano
attraverso la campagna, furono inghiottiti nelle fratture che
s'aprivano sotto i loro piedi e si richiudevano quasi immediatamente
sulle vittime, gli alberi e le case che vi erano precipitate. E'
probabile che i loro scheletri siano ancora sotterrato a parecchie
centinaia di metri in queste fratture richiuse. Molte persone infine
perirono bruciate negli incendi che seguirono la caduta delle case,
dove quasi dappertutto il fuoco si trovava ancora acceso nelle
cucine, nel momento della scossa, per il pasto di mezzogiorno. Questi
incendi scoppiarono con furore nella città che come Oppido, Palmi e
Messina, tenevano vasti magazzini d'olio abbondantemente riempiti.
Lo stesso giorno, 5 febbraio a mezzanotte si produsse
una breve scossa, violenta e complicata quanto la prima. Essa costò
la vita a un numero relativamente ristretto di persone. Dappertutto
la popolazione era scappata fuori dalle rovine della città e dalle
abitazioni e restava all'aperto, spaventata, senza riparo e senza
risorse. L'intensità principale di questa seconda scossa esercitò
la sua azione un po' più a sud della prima. Le sue distruzioni
furono soprattutto notevoli sulle due rive dello stretto di Messina
in Sicilia, nel val Demone. Fu essa che determinò la rovina delle
due grandi città di Reggio e Messina; più a nord, è vero, non
restava più niente da far crollare. E fu ugualmente in occasione
della scossa di mezzanotte che si vide il mare sulla costa vicina
allo sbocco dello stretto del Faro ritirarsi bruscamente per poi
ritornare quasi subito innalzandosi di sette metri al di sopra del
suo livello abituale, e spazzare tutto al suo passaggio. Racconterò
in seguito la drammatica catastrofe che visse allora Scilla.
La seconda scossa del 5 febbraio fu accompagnata da
un'emissione di vapore,di fumo, di materie infiammate dal grande
cratere dell'Etna, molto più abbondante del consueto. Quest'ultimo
fenomeno si prolungò per parecchi giorni e durante la stessa durata
le oscillazioni del suolo si ripeterono giornalmente, ma molto
attenuate nell'estremità meridionale della Calabria e nel nord della
Sicilia. Si giunse così sino al 25 marzo, data d'un nuovo e non meno
formidabile terremoto, coincidente con un'eruzione eccezionale dello
Stromboli. La scossa ebbe luogo alle nove di sera e fu preceduta
ancora una volta da un rumore sotterraneo simile a un violento rombo
d'un tuono, dopo di che il suolo si mise a oscillare in una maniera
così terribile e così strana come il 5 febbraio. Il centro d'azione
di questo nuovo terremoto, del 28 marzo, s'era spostato in rapporto a
quello del mese precedente; esso era più a nord, verso la
congiunzione del massiccio della Sila all'Appennino. Così la scossa
fece sentire principalmente la sua furia nella regione attorno
all'istmo di Squillace; la sua area principale d'intensità fu
compresa nel quadrilatero che delimitano i capi Vaticano e Suvero sul
mare Tirreno, Stilo e Colonna sul mare Ionio. Essa fece cadere una
serie di città, di borghi e di villaggi, più di settanta, che
avevano subito pochi danni il 5 febbraio, ma fece molto meno di
vittime, perché la popolazione stava all'erta e s'era accampata
nelle campagna. D'altronde le distruzioni materiali non furono così
notevoli quanto lo erano state la prima volta. Le città le più
provate, come Nicotera, Monteleone, Squillace, Nicastro, Catanzaro,
Santa Severina e Crotone non furono distrutte che in parte.
Le scosse non si fermarono lì. Durante tutto il resto
del 1783 si ripeterono parecchie volte al giorno, ma diminuendo
gradualmente di violenza. Le ultime furono sentite nel mese di
febbraio e di marzo 1784. Se ne contarono in tutto 949. Poi tutto si
calmò, il suolo riprese la sua stabilità normale e a poco a poco la
sicurezza ritornò e si ricominciò a ricostruire le rovine e a
riparare le piaghe di ogni tipo provocate da un così spaventoso
disastro.
Le
altre grandi scosse del 5 febbraio e del 26 marzo erano costate la
vita a più di 40.000 persone nelle tre province della Calabria e in
Sicilia. Hamilton, d'accordo con i documenti ufficiali, valuta a
25.000 circa quelle che soccombettero nei mesi seguenti per le febbri
contagiose e per le epidemie occasionate dall'infezione cadaverica,
dalll'insufficienza degli alimenti e dalla mancanza di riparo contro
le intemperie dell'atmosfera.
(F. Lenormant - La Magna Grecia- Traduzione di Antonio Coltellaro)
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