sabato 28 gennaio 2023

Nostalgia.

 L'ARTE DI PERDERE I LUOGHI

Penso di uscire, questa mattina, anche se fa freddo. Passo da mia sorella per salutare mamma sulla sua poltrona. Sento la sua voce che mi dice: “Non ti ’mpacciare ché è brutto tempo”. Mi avvio verso la piazza. Maria non siede più sui gradini del vicolo e non mi chiama più per recitarmi le storie di una volta. Raffaele non è più al balcone per ricordarmi le sue avventure di emigrato e di dirigente comunista, che partecipò all’occupazione delle terre. Non c’è nessuno nella strada. Il vento piange e si lamenta nei vicoli stretti con le case vuote. Rispondono i battiti di qualche finestra rimasta aperta dopo tante intemperie. In piazza non incontro nessuno, manco un cristiano, “manco un cane”.  La piazza delle feste e dei concerti, dei comizi e delle conferenze, delle nottate di amore e tradimenti, delle interminabili mangiate e delle serenate, la piazza è disabitata. All’inizio abitano ancora due famiglie del paese, alla fine c’è un edicola-tabacchi. Nella piazza vera abita soltanto una signora venuta da un paese dell’Est. Il bar, al centro, ha chiuso da poco. E da poco hanno chiuso due botteghe di generi alimentari. Dicono che qualcuno riaprirà, ma i pochi rimasti sono scettici. “Il paese muore”; “Ogni giorno chiude una casa”; “Non ci sono più negozi”; “Nessuno si accorge che tra dieci anni, defunti questi quattro vecchi, non resterà un’anima”; “Non torna più nessuno. Che dovrebbe tornare a fare”. La percezione e il dolore dell’abbandono sono molto più forti di quanto non possono restituire le statistiche e i dati demografici che pure non lasciano scampo. Ascolto, quando incontro qualcuno, queste rituali litanie e parlo poco per evitare riflessioni più disperate e apocalittiche. “Siamo in pochi e quelli che ci sono non escono mai. Soltanto per qualche festa o per i funerali”; “Il paese è tutto un funerale”; “Fossi stato più giovane, me ne sarei andato. Adesso dove vado?”; “E nessuno si rende conto”. Nel 1951 c’erano 4.200 abitanti; nel 1961 poco più di 3.000; poi un lento inarrestabile declino e oggi sono registrati poco più di 1.000 abitanti, ma i residenti veri sono molto meno di 1.000”. 


Mi sento la testa affollata di persone e di ricordi, di speranze e delusioni, di un pieno bello e vitale che è diventato vuoto e silenzioso come in un “perenne Venerdì Santo”. Non riesco ad arrivare fino alla cantina di nonno Peppe, dove adesso Vito, mio cugino ha il bar, fa un buon caffè e raccoglie alcuni degli ultimi abitanti. “Che ci faccio qui?”. “Possibile che la mia vita, dovunque sia andato, è stato sempre un costante, diverso, melanconico domandarmi e domandare che ci faccio qui?” Torno indietro per non appesantire la mia melanconia. Sconfinata nostalgia per le persone che abitavano quelle case sbarrate. Si agitano donne, uomini, bambini dal loro altrove, lontano, chissà da quale “altrove” cercano di trattenermi. Sembrano volermi rimproverare, pietosi e carichi di pena, perché non ho saputo fare qualcosa per evitare la chiusura del paese. “Adesso, almeno, non andare via, per non farci scomparire definitivamente”, sembrano dirmi con il mormorio del vento. 


P. S. Il paese che, malgrado tutto, continuo ad amare, non è solo questo, ha momenti e periodi di vitalità, ha sacche di resistenza, trincee da cui si combatte una battaglia dagli esiti incerti. Non è così, del tutto, ma stamattina lo vedo così, sperando di poter svegliare anche altri paesi che si stanno addormentando, a volte sognano, ma rischiano di morire nel sonno. 


La foto è di mio cugino Vittorio Teti

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il cuor piange tristezza di nu iuarnu ca nun torna cchiu . poveru paise miu rimastu senza nanima .mancu chiddu chi jiettava u baannu uncesta chiu o vinnaiualu de pishi aru chianiattu si aru piru ho ppera chiesa da moda duve cceranu cchiu gienti ddattuarnu de tutti punti .suspiramu tuntti quanti de tutti i riniuni. rimani intattu paise miu.